Forse il più famoso sputasentenze è stato Socrate. Non il Socrate illuminato, maestro di virtù  consegnatoci da Platone, ma quello parolaio, sofista e con l’aspetto ridicolo irriso da Aristofane. Ma non staremo qui a difendere l’una o l’altra posizione, né parleremo attraverso la teoresi filosofica per dimostrare, fonti alla mano, l’importanza del dialogo nella costruzione di un pensiero. Né tantomeno sosterremo, in opposizione al dialogo, la bellezza del monologo quale elemento – per quanto fascinoso – di espressione delle proprie convinzioni veritiere. Ragazzi, si parte. Sceglieremo (sceglierò) una zona franca entro la quale oseremo (oserò) il dire, nel pieno rispetto del non rispetto per stereotipi o forme convenzionali di pensiero, che purtroppo hanno reso la stessa attività del pensare un prontuario, un breviario, un codice giuridico da consultare per poterci orientare in modo ottimale all’interno del “giusto mondo”, del “corretto agire”, delle “parole consentite” nella nuova società  fondata sul “multi” (multiculturalismo, multietnicità, multireligiosità eccetera).

Il cosiddetto ‘grado zero’ del dire è conosciuto presso i greci col nome di parresia. Semplicisticamente vi dirò che la parresia è intesa come un parlar chiaro, che gli inglesi traducono con “free speech”, i francesi con “franc-parler” e via discorrendo. Un ardire la parola nella sua potenza primigenia per “dire la verità”, per opporsi al potere, per ribadire il proprio punto di vista. Ma essa è anche un rischio perché “il parresiastes mette a rischio il suo privilegio di parlare liberamente quando svela una verità che mette paura alla maggioranza”.

Inoltre, occorre che si abbiano delle qualità “personali, morali e sociali che garantiscano il privilegio di parlare”: insomma una “reputazione rispettabile”. Tutta roba che io non ho. Tuttavia, anche se non sono “rispettabile” non ho paura di “metter paura alla maggioranza”, cosicché affronterò “qualcosa che comporta un rischio”; qualcosa di “pericoloso” per me. Per la mia reputazione alla sans façon (a chi volesse approfondire il concetto di parresia, consiglierei il libro di Michel Foucault “Discorso e Verità nella Grecia antica”, Donzelli editore). Mi ripeto: siccome non sono Foucault e non ho mai tenuto a una “reputazione rispettabile”, alla fine sarò semplicemente uno “sputasentenze”, uno dei tanti; ma con la differenza che sulle cose che dico e sostengo, ho sempre messo più palle che negli addobbi di un albero natalizio.

Marcello Veneziani, bravo com’è, mi ha fottuto sul tempo e ha pubblicato un ottimo articolo dedicato all’“imbecille globale”. Eh sì, colui che scarica l’app del politicamente corretto, che divide ancora fra buoni e cattivi (ponendosi nella metà campo dei buoni), che vuole un mondo “multi” in ogni sua accezione, che vede fascismo da ogni parte (se un padre molla un ceffone al figlio, è fascista per l’“imbecille globale”, anche se il severo genitore votasse per il Pd). Il Male tutto da una parte: i difensori dell’identità culturale, della famiglia tradizionale, del’idea di Patria, della religione cristiana, nemici della dottrina gender, contro l’immigrazione clandestina et similia. E il Bene tutto dall’altra: i “multi” a vario titolo, gli immigrazionisti ideologici, i pasdaran della legge Zan, i nemici di ogni identità e della famiglia tradizionale, i vegani, i no vax, il ‘popolo green’, i missionari laici, i fautori delle desinenze in “a”, quelli che la libertà è partecipazione (a patto che si neghi la parola a Salvini e Meloni) e ad libitum.

Chi non la pensa in quel modo, quel modo lì propugnato armi alla mano da coloro che hanno creato questo democratico steccato categoriale, è semplicisticamente bollato come reazionario, incolto, nemico del progresso. In sintesi: “fascista”. E come scrive ironicamente Davide Brullo, tutta la letteratura ascrivibile a una qualsivoglia idea conservatrice, sovranista, identitaria, per i guardiani del caveau della cultura, “fa schifo”. Le case editrici che propongono autori legati a idee non in linea con i dettati della Congregazione dell’Indice, “fanno schifo”. Non ho intenzione di scopiazzare gli articoli di Veneziani e Brullo, quindi prenderò (prenderemo) una strada con molti divieti di transito, “rischiando” la parola e la parresia medesima. Titolo del film: “A sputar sentenze siamo tutti bravi”. Sottotitolo: “Minchiate per minchiate, preferisco le mie”.

Attori intelligenti, cantanti intelligenti, scrittori intelligenti  – si diceva – non potranno mai pensare una sola, dico una sola  cosa, che abbia un legame minimo con quella parte della barricata, del muro (creato dalle ubbie radical chic) dove sono relegati i “fascisti”. Da una vita assisto ai tentativi di sdoganare un Lucio Battisti “fascista”: trasmissioni televisive, articoli, interviste, tutti a negare una presunta simpatia di Battisti per il pensiero di destra. Eppure io in persona, trovandomi anni fa a gestire come giornalista l’incontro fra un assessore regionale e un personaggio vicino a Battisti, chiesi al secondo: “Mi dica la verità, ma Battisti era davvero di destra?”. Risposta: “Certo non era di sinistra”. Eh già, se sei intelligente, se hai scritto fra le più belle canzoni della storia della musica italiana, non puoi essere di destra. Salvo poi leggere dal 23 novembre 2020 in poi,  dispacci d’agenzia e articoli, dove si dice che “Lucio Battisti era sorvegliato dai servizi segreti italiani e statunitensi” perché sospettato di essere un “sovvenzionatore del Comitato tricolore, organizzazione fondata da Mario Tedeschi, senatore del Movimento Sociale Italiano”, che aveva più o meno lo stesso ruolo che a sinistra era espletato da Soccorso rosso.

“Molti altri cantanti famosi come Fabrizio De André, Milva e Gianni Morandi”, secondo gli organi di informazione,  sarebbero stati “sotto osservazione speciale”. Ma ciò non toglie una virgola al ragionamento di fondo: se sei “fascista” sei una schiappa e non puoi essere Battisti o, viceversa, se sei Battisti non puoi essere di destra, tutt’al più “repubblicano” come insinuato da Bruno Lauzi. Io so che è pura follia agire su questo registro e confondere il giudizio estetico, artistico con quello politico, personale. E va ricordato in ogni caso che Battisti fu sempre molto discreto, schivo, senza mai confondere la sfera del privato (anche ideologico) con quella del pubblico, ovvero dell’arte.

Io parlo, dicevo, parlo perché so. Parresiasticamente (e da sputasentenze)  parlo. “La parola d’ordine dei cataloghi anni Novanta [ma anche del Terzo Millennio] è: diffondersi su artisti impegnati che affrontano le tematiche del razzismo, de sessismo, dell’AIDS e via dicendo. Ma i meriti di un artista non sono in funzione né del sesso, né dell’ideologia, né delle preferenze sessuali, né del colore della pelle o delle condizioni di salute, e affrontare una tematica non vuol dire affrontare un pubblico […] avere per tema l’AIDS o l’intolleranza non dà a un’opera d’arte pregi estetici maggiori che se parlasse di sirene e palmizi”.

Ci hanno incapsulati in “Matrix”. Una “Matrix” che come ogni “Matrix” che si rispetti non accetta il dissenso, in nessuna forma. Perché poi dovremmo dissentire? E da cosa? Ci hanno disegnato il mondo ‘buono’, ‘umano’, ‘equo’, ‘solidale’, perché mai dovremmo scegliere un dissenso dal puzzo littorio-cruciuncinato? Viviamo nell’“Impero del Bene” scriveva Philippe Muray, viviamo in Cordicolpolis, una megastruttura planetaria senza confini, muri e dissensi, dove vige il “fascismo cordicolo” (da corcordis, cuore e colo,venerare, onorare). E noi tutti dobbiamo onorare, riconoscenti, il Bene che ci hanno fatto conquistare: la nostra stessa identità non ha più ragion d’esistere, essendo essa stessa afflato globale, ecumenico, figlia della civiltà profilattica che ha come scopo il proteggerci dalle cattive strade, dai cattivi giudizi, dalle idee bislacche – che diamine! – legate a forme di pensiero che si nutrono ancora di sedimenti retrivi e anacronistici.

Che senso ha, oggi, parlare di eterosessualità, famiglia, Dio, razza, libertà di pensiero? Siamo tutti liberi, senzadubbiamente! di quale libertà ulteriore potremmo parlare? Siamo tutti senza sesso perché abbiamo il sesso globale, non dobbiamo disquisire sulla sessualità (sarebbe da fascisti) se ogni forma di sessualità è ben accolta dentro “Matrix”. Perché continuare a definirsi etero, applicando un retaggio dichiaratamente ‘fascista’? O sentirsi cristiano? Esiste già la religione universale dove convivono i diversi afflati, tutti espressione di questa nuova civiltà senza barriere. E di famiglia, ne vogliamo parlare? Orribile eredità di un passato patriarcale che, seppur morto, dobbiamo continuare a crocifiggere per ricordare ai giovani abitanti di Cordicopolis, che ogni forma di ‘fascismo’ dovrà essere combattuta con l’esercizio della dannazione della memoria. Il nuovo popolo globale non ha più dèi, perché i molti dèi del passato sono ormai inglobati in un unico dio senza nome che li comprende tutti: se tutti gli dèi sono rispettati sotto un nome astratto che ci garantisce rispetto ed equità, perché nel nostro pianeta felice e rispettoso di ogni cosa (tranne del pensiero individuale) dovremmo continuare a parlare di cristianesimo e islamismo?

Questa “Matrix” dal volto umano, ma con lo sguardo pietrificante di Medusa, nella sua immensa bontà accetta ogni Sé, ne rivendica le ragioni, a patto però che questo Sé non azzardi un pensiero difforme. A condizione che questo Sé individuale non osi tentare di uscire dall’ipnosi collettiva, della quale siamo tutti azionisti o, nel caso contrario, emarginati.  Ormai siamo “buoni”, questo è assodato. Abbiamo superato di gran lunga gli intenti già datati dei Lumi e siamo riusciti, in quanto “multi”, a far convivere ogni dottrina, ogni pensiero, ogni religione, all’interno di questa immensa ‘casa comune’ che accoglie derelitti, drogati, immigrati irregolari, carcerati, puttane, rivoluzionari col Rolex, scrittrici scarse, isteriche e beghine, preti politicizzati, centri sociali, Ong, Anpi, eroine alla Greta e alla Carola (la speronatrice più amata dalla corporazione anema e core), politici trombati che balbettano libri, cantanti e attori mediocri che cavalcano l’antifascismo per un titolo di giornale, ex sprangatori sessantottini divenuti guru delle calche ululanti, perché ormai ‘rischiarati’ dalla Luce della Verità; facce da talk show politico imbarazzanti e ammaestrate come scimmie da circo, giornalisti che scrivono ormai per un unico padrone (anch’essi ammaestrati); studiosi del profondo che non sanno cercare il profondo e allora diventano a loro volta guide spirituali delle folle narcotizzate, scrivendo un’ovvietà dietro l’altra che definisco recal-cazzole; vignettisti astiosi e irritanti; sempiterni fedeli di editori esplosi del loro stesso materiale esplosivo su un traliccio; registi d’inchiesta che raccontano fatti già noti indirizzando tuttavia la presunta inchiesta in una sola direzione – che guarda un po’ – è quella prediletta dagli abitanti di questo consesso civile unidirezionale (in tal caso il “multi” è aborrito). Potrei riempire almeno un tomo di tali esempi che dimorano presso Cordicopolis-Matrix.

Questo mondo “buono” e fuori discussione (chi osa metterlo in discussione è, ovviamente, “fascista”), è il prodotto della “cultura del piagnisteo” vergata nel suo libro da Robert Hughes. Essa è “il cadavere del liberalismo degli anni Sessanta, è il frutto dell’ossessione per i diritti civili e dell’esaltazione vittimistica delle minoranze…”. Tale “cultura” vittimistica, esasperazione del politicamente corretto, ha innumerevoli metastasi, come quella che in America ha prodotto l’abolizione di parole che abbiano come prefisso o come suffisso man per non cadere nel vituperato sessismo: “Così al posto di chairman [presidente, direttore] troviamo l’ingombrante chairperson o semplicemente chair [sedia]”. E in Australia sono “proibite” perfino parole come “sportsmanship” (sportività, fair play), “workman” (operaio), “statesmanlike” (da statista). Ma spiega Hughes:

Chiunque conosca la storia della lingua inglese sa che nell’antico anglosassone il suffisso  –man era di genere neutro. Aveva, e conserva tuttora, lo stesso significato odierno di persona, applicabile a uomini e donne senza distinzione.

Ma l’antico sopruso sessista grida vendetta, cosicché anche in Italia si è arrivati a concepire pagliacciate linguistiche, frutto di una ormai stucchevole lagnanza egalitaria: e spuntano appellativi “orribili” e “abominevoli” quali ministra, sindaca, avvocata, dottora e addirittura presidenta (come pretendeva essere chiamata Laura Boldrini). Quei due aggettivi, “orribile” e “abominevole” non sono farina del sacco di chi scrive queste righe, né tantomeno di qualche reazionario malinconico che conserva ancora nell’armadio il fez del proprio nonno. Essi sono stati pronunciati da un Presidente emerito della Repubblica, un comunista antica maniera, ossia Giorgio Napolitano, il quale non ha esitato a ribadire l’importante ruolo della nostra lingua, già mortificata da anglicismi inutili (viene in mente Palombella rossa, dove Nanni Moretti aggrediva la giornalista che gli parlava di trend negativo: “Trend negativo? Ma come parli? Chi parla male pensa male, le parole sono importanti”). Ecco cosa ha dichiarato il presidente Napolitano:

… insisto in una licenza, quella di reagire alla trasformazione di dignitosi vocaboli della lingua italiana nell’orribile appellativo di ministra o in quello abominevole di sindaca.

Giorgio Napolitano

E per caduta libera l’oculata critica di un uomo che per storia politica e tradizione appartiene a quella parte della barricata che ha creato Matrix-Cultura, ci fornisce ulteriore spunto di riflessione sul ‘piagnisteo’ che porta con sé i paradossi più inestricabili. Come quello di abolire parole o di sostituirle con altre eufemisticamente più “corrette”.

E allora la memoria porta in superficie un frammento del film “Nymphomaniac” di Lars von Trier, laddove Joe/Charlotte Gainsbourg dice:

Ogni volta che una parola diviene proibita, si va a togliere una pietra miliare nelle fondamenta democratiche. La società rivela la sua impotenza di fronte a un problema concreto, rimuovendo termini dal vocabolario.

Si assiste così a un teatrino di idiozie che porta alcune scrittrici illeggibili a sostenere il cambiamento del concetto di Patria con quello di Matria, o di cominciare a parlare del punto di vista delle “personagge”. Uno stato delirante che ha prodotto aberrazioni concettuali che non si possono leggere, ascoltare. L’attivista statunitense Andrea Dworkin, è arrivata a sentenziare che “la donna durante il rapporto è uno spazio invaso, un vero e proprio territorio occupato anche se non c’è stata resistenza, anche se la donna occupata dice, ‘sì, ti prego, sì, ancora, ancora!’”.  Mentre la docente della Harvard Law School, Susan Estrich, si è spinta fino a un punto di non ritorno del delirio vittimistico: “Vedere nel  un segno di autentico consenso – afferma – è fuorviante”.

Una visione grottesca della sessualità che relega la donna, invece di portarla su un piano equamente paritetico, a macchietta priva di volontà, passioni autentiche, capacità di giudizio. Direi che la mia parresia per il momento può anche bastare, non amo dilungarmi oltre la pazienza di un ipotetico lettore; altre sentenze le sputerò certamente, commetterò altri “psicoreati”, mentre continuo ad osservare il crepuscolo culturale spacciato per ‘grande apertura’ dal ‘Ministero dell’Amore’, il cui sguardo lungo è più maligno dell’occhio di Sauron, signore di Mordor.

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