Al Torino Film Festival immagini e protagonisti degli anni Sessanta e Settanta
di Dario Pappalardo
Novembre 1970: gli operai della Pirelli scioperano e manifestano a Milano, in piazza Duomo. Salgono sul monumento a Vittorio Emanuele II, impacchettato poche ore prima da Christo. L’Italia era anche questo: l’arte e la protesta che si incrociano per strada. Picchetti e performance. C’è tutto o quasi di quegli anni in La rivoluzione siamo noi , il documentario di Ilaria Freccia (da un’idea condivisa con Ludovico Pratesi), prodotto e distribuito da Istituto Luce-Cinecittà, presentato al Torino Film Festival. In poco più di un’ora, il montaggio alterna immagini d’archivio a interviste con i superstiti — a partire da Michelangelo Pistoletto — di quella meglio gioventù che ruppe tele e schemi portando l’opera fuori dal quadro: per le vie, nelle piazze, nei garage. Come il parcheggio di Villa Borghese, a Roma, che dal 30 novembre 1973 al febbraio del ’74 diventa uno spazio dedicato alla libera espressione artistica. Achille Bonito Oliva, che aveva già firmato nel 1970 la mostra Vitalità del negativo , costruisce su 10 mila metri quadrati illuminati dal neon blu una biennale alternativa: Philip Glass suona; Trisha Brown danza. Perché la penisola, tra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo, diventa tappa obbligata nel circuito artistico internazionale.
A Torino, nella galleria di Gian Enzo Sperone, espongono Carl Andre, Gilbert& George, Richard Long, Cy Twombly. E gli italiani si chiamano Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Giulio Paolini, Mario Merz, Giuseppe Penone.
Sullo schermo appare un giovanissimo Germano Celant che dice «L’artista produce azioni: è stufo di essere associato a un oggetto». La telecamera che lo inquadra sta filmando la nascita dell’Arte Povera. A Roma, in un altro garage, apre L’Attico: la galleria di Fabio Sargentini si inaugura nel 1969 con i cavalli veri di Jannis Kounellis. Gino De Dominicis invece vi installerà uno zodiaco “vero” con tanto di leone autentico. «In piazza del Popolo — ricorda Paola Pitagora — c’erano scambi continui, curiosità reciproca. Chi poteva, sedeva ai tavolini del Caffè Rosati, gli altri restavano sulle scale della chiesa». Pino Pascali, morto a 33 anni nel 1968, è la stella che brucia in fretta lasciando più segni di tutti: i bachi da setola, le coperte di Penelope, le armi giocattolo, mentre quelle vere sparano in Vietnam. A lui, a Torino, è dedicato anche il film di Walter Fasano Pino .
Napoli, città di gallerie — da Lia Rumma a Lucio Amelio — diventa Vienna con le azioni sanguinolente di Hermann Nitsch allo Studio Morra, dove arriva la polizia: «Ed io ero l’uomo più felice del mondo», ricorda l’artista. Marina Abramovi?, in una performance ormai storica, per sei ore trasforma il suo corpo in un oggetto a disposizione del pubblico: «La gente cominciò a liberare energia negativa contro di me» racconta lei. Poi il documentario la mostra mentre mangia salame nel camper con il compagno Ulay. Andy Warhol, invece, invitato sotto il Vesuvio da Lucio Amelio, scopre la mozzarella.
«La rivoluzione siamo noi. Lo sviluppo della società non dipende dalle circostanze politico-economiche, ma da quelle creative ed espressive. Bisogna sostituire la coscienza della persona a quella di classe», dice Joseph Beuys. E percorre la grotta di Posillipo, a pochi passi dalla tomba di Virgilio, come se entrasse nell’Ade, diventando l’ombra di un tempo in cui l’arte era partecipazione, gioia, contatto fisico. Una manciata di decenni che sembrano secoli.
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