Mi hanno sottratto anche la piscina. A Riccione la piscina è magnifica: sembra un enorme capodoglio, con lo scheletro osseo in legno & vetro. Federica Pellegrini, una manciata di anni fa, ha stabilito qui uno dei suoi innumerevoli record del mondo. Vuota, dal recinto chiuso, la piscina fa un effetto desolante: pare una grande balena spiaggiata. Tra le giunture di cemento, l’erba comincia l’opera da locusta – invade.
I momenti di crisi sono eccitanti e risolutivi: privi di vaghe astrazioni, di astute menzogne, gli uomini vengono ridotti al dato primo. Alla fame primaria. Così, c’è chi si ribella, scagliando se stesso, come una pietra, contro governi, parlamenti, forze dell’ordine, urlando in faccia alla plutocrazia sanitaria. Le trincee si chiarificano: da una parte si invoca la salute, dall’altra si vuole la salvezza; chi crede che la vita debba essere tutelata con il principio di morte (tutto chiuso, tutti reclusi) e chi anela alla pura vitalità (liberi tutti). D’altronde, come si può vivere senza toccare, senza sentire l’altro, nel regno della negazione del corpo? Il virus riduce tutto al corpo, in effetti: corpo malato, corpo ribelle, corpo vulnerabile, corpo contagioso – ogni uomo è contagio –, corpo intoccabile. Corpo sacro. Corpo sacrificato. Il Covid riduce i concetti a uno: tutto è corpo, la carne è un bubbone, è gonfia di virus. Non è sufficiente sanificare, santificare, pulire, umettare, lucidare: restiamo cosa di carne, ricettacolo di virus, l’alcova del male. C’è chi, per altro – più di uno e tutti piuttosto giovani, belli, in carne, che incarnano l’avvenire –, mi ha detto: ci chiudano in casa e finiamola lì, basta che mi diano uno stipendio. Malaugurato sogno, utopia al macello, comunismo applicato con grinta farmaceutica: lo Stato ti dà i soldi per stare a casa – e consumare quel che ti dico io. Biada & giogo: grigio paradiso dei rassegnati.
Il virus riduce tutto al corpo: corpo malato, corpo ribelle, corpo vulnerabile, corpo contagioso – ogni uomo è contagio –, corpo intoccabile. Corpo sacro. Corpo sacrificato. Tutto è corpo, la carne è un bubbone, è gonfia di virus. Non è sufficiente sanificare, santificare, pulire, umettare, lucidare: restiamo cosa di carne, ricettacolo di virus, l’alcova del male…
Al male, diceva Iosif Brodskij – che a poco più di vent’anni, in quanto poeta, cioè “parassita sociale”, era stato condannato, nell’allora Unione Sovietica, a cinque anni di lavori forzati, nel Grande Nord – bisogna rispondere con creatività. Inutile essere caritatevoli e porgere l’altra guancia, diceva. Al male si replica con audacia, con fantasia. Finanche con un gesto assurdo. Altrimenti, il male ti ghiaccia, ti sopraffà. E lo fa in due modi: o ti ammazza – è troppo forte – oppure ti imprigiona in una lenta malinconia, che finisce per corrodere l’individuo, la sua personalità.
Ora. Del virus non m’importa l’aspetto ‘sociale’ né quello economico – poveraccio sono, tale rimango. Rischierei, in effetti, di fare bla bla, di blaterare come fanno troppi. M’importa, invece, la presa individuale, il modo in cui il virus ci schiaccia, ci preda. Il virus corrompe con la frustrazione, la rabbia – ci pieghiamo, certo, ma privi di preghiera resta la piaga, che dovrà essere ricucita.
Mi hanno tolto la piscina, dicevo. Una cosa da poco, in fondo. Per me, però, è una specie di zenit. Svolgo un lavoro totalmente mentale: ogni giorno – o quasi – ho bisogno di nuotare per ricordarmi che ho un corpo. Non sono un nuotatore, non ho velleità da tardivo agonista, non ho muscoli, non m’importa. Ho bisogno di fare fatica, fosse per mezz’ora. E di dimenticare chi sono. L’acqua ti avvolge, devi imparare a respirare in un altro modo, a commisurare fiato e sforzo: tutto lì. Senza la piscina, la sola attività che mi concedo insieme alla scrittura – non ho amici, non pratico sport – sono orfano. Naturalmente – ripeto – non andare a nuotare per un mese (o per due o per tre) in piscina non è un sacrificio, è quasi niente, di fatto. Quel quasi niente, però, mi logora. Se il virus – come qualsiasi crisi, più o meno grave – insegna qualcosa, anzi, impone qualcosa, è il regime delle cose inconsuete. L’inaudito. Insomma: ho preso ad andare a nuotare al mar
La muta era lì, credo, da vent’anni. L’avevo acquistata con il mio grande amico, all’epoca. Propensi alle immersioni. Saremo andati un paio di volte, a immergerci, nel mare di Liguria. Lui ora è medico, e le immersioni le fa sul serio – io preferisco altre profondità. In ogni caso. Ho pulito la muta, le ho parlato, come fosse una bestia. Mi sta ancora. Quando faccio le cose sono sbrigativo, agisco d’impulso. La muta ha una giacca con cappuccio: quella parte non la metto. Indosso solo i pantaloni con le bretelle. Se ho fretta, non metto neanche le bretelle.
Sono un privilegiato, è ovvio. La spiaggia è lunga e vuota: per difenderla, le ruspe hanno già innalzato una duna tra gli stabilimenti e il mare. Sopra le dune, d’inverno, gioca qualche bambino. Lascio lo zaino vicino alle cabine di uno stabilimento, chiuso. Mi spoglio. Salto sopra la duna, la varco, corro verso il mare. La luna piglia il mare per i capelli, lo trascina indietro. Entro. Di solito faccio il bagno di sera, verso le sei. Prima devo lavorare, e poi non voglio che nessuno mi veda: ci sono gesti da perpetuare in solitudine, nel cantiere del pudore. Nuotare, naturalmente, è un eufemismo: il freddo disintegra ogni ideale atletico, ti muovi, per necessità, con una certa frenesia, finché il corpo non raggiunge l’abbaglio minimo di un certo equilibrio termico. Nuoto a casaccio, verso il largo: l’oscurità dell’acqua si mescola a quella della sera, tutto è un’unica polla nera. In fondo al mare ci sono delle luci, minuscole, di qualche barca, immagino. È l’avvenire, l’avventura. Ti senti solo e nudo, in mare: può accadere qualsiasi cosa – un crampo, ad esempio. Ma è la sfida a risvegliare il corpo dalla sonnambula attività del giorno. In questi giorni, poi, la luna sigilla il mare; le stelle esplodono come piccole escoriazioni, nonostante la costa, piena di alberghi e palazzine. Il cielo sembra avere la lebbra: ogni stella mi pare un lume portato in giro, lungo l’infinità del cosmo, da una vedova. A volte il mare è spesso, terroso, altre volte è traslucido, come il vento.
Quando torno sulla spiaggia, arrancando, non m’importa che il mondo sia lo stesso. Mi sento ancora in vita. Mi ancoro alla vita. La sera è densa come un canneto, non ho gli occhiali, vedo solo forme primitive: ogni volta è un miracolo che riesca a trovare lo zaino, l’asciugamano, le chiavi della macchina. Che idiota.