La prima colpa consiste nell’avallare una sottovalutazione della dimensione clinico-epidemica del Covid 19. E’ la colpa grave di chi vorrebbe rimuovere la morte, la malattia e la sofferenza che ci ha travolti in questi mesi. Solo questa colpa dovrebbe essere una ragione sufficiente per moderare i toni, essere più umili e più rispettosi nei confronti delle persone e delle famiglie colpite tragicamente dal morbo. Invocare la lettura generale dei movimenti d’insieme – per esempio la spinta ad una legislazione fondata sullo stato d’emergenza che dall’11 settembre in avanti sembra dominare la vita politica dell’Occidente – trascurando però la dimensione singolare della perdita e del dolore, rischia di essere espressione di un terribile vizio di fondo della politica: fare prevalere i discorsi generali-universali sulla considerazione della dimensione singolare della vita e della sua fragilità. Per questa ragione un grande psicoanalista italiano come Evio Fachinelli di fronte alla misteriosa sparizione del corpo del leader comunista cinese Lin Piao caduto in disgrazia presso i fedelissimi di Mao all’interno del suo partito, insisteva nel chiedere sue notizie. Dov’è il corpo di Lin Piao? Mentre i dotti commentatori di sinistra consideravano la sua scomparsa un’inezia, un riflesso del tutto secondario di una partita assai più ampia – quella della lotta interna al partito per avere la sua direzione -, lo psicoanalista non indietreggia nel porre la sua fastidiosa ed emblematica domanda che ricorda all’universalismo astratto del discorso politico l’insopprimibilità della dimensione singolare dell’esistenza: dove è il corpo di Lin Piao? Lo stesso accade oggi, se si vuole, per coloro che denunciano nella legislazione d’emergenza una dittatura sanitaria di fronte alle sofferenze delle persone e delle famiglie colpite dal virus.
La seconda grave colpa riguarda l’intolleranza nei confronti dell’esperienza del limite che la gestione dell’emergenza sanitaria ha dovuto necessariamente riaffermare nella nostra vita individuale e collettiva. Questa intolleranza deriva direttamente da una concezione solo libertina della libertà che vive l’esperienza imposta del limite come l’esito liberticida di un suo abuso dittatoriale. Portare la mascherina, rinunciare alla movida, alla libertà di spostamento, alle feste con gli amici, insomma incontrare i limiti imposti dalla Legge all’esercizio effettivo della nostra libertà viene visto come un attentato autoritario nei confronti di nostri inalienabili diritti. La dittatura sanitaria colpisce al cuore la nostra libertà individuale. Saremmo così tutti prigionieri di un regime che esercita un potere di controllo tanto abusivo quanto illimitato. La diagnosi biopolitica di Foucault sarebbe pienamente confermata. Quello che però così non si riesce a leggere è quanto l’esigenza della sicurezza e della protezione della vita non debba sempre avallare il fanatismo igienista del biopotere, quanto la solidarietà non necessariamente debba evolvere verso una compattezza totalitaria del corpo sociale, quanto l’esperienza del limite non sia solo una costrizione repressiva ma l’incontro con una alterità che ci educa a considerare la funzione virtuosa del suo trauma.
Affermare invece una libertà astratta che non è in grado di attraversare l’esperienza del limite significa sostenere il carattere illusorio dell’ideale di fronte ad un reale traumatico che non può essere negato. Dovremmo infatti ricordare che ogni negazionismo è l’aggiramento del lavoro atroce ma necessario del lutto rispetto, innanzitutto, alla nostra onnipotenza. Come insisteva a fare Fachinelli, dovremmo sempre chiederci dove sia il corpo di Lin Piao, non dimenticare mai il carattere singolare della vita, la sua fragilità senza scampo.