Un altro finale di partito

C’è bisogno di ripensare una forma organizzativa adatta alle mutate condizioni del presente, ragionando sui limiti ma anche sulle opportunità delle pratiche adottate dai «partiti digitali» in questi ultimi anni

Parlare della necessità di un partito politico oggi a sinistra in Italia sembra da nostalgici: un tema che si addice più ai vecchi reduci del partito comunista e delle sue tante litigiose diaspore che alle nuove generazioni. Del resto il cadavere mal seppellito del Partito comunista italiano, quello che nell’immaginario della sinistra italiana è ancora oggigiorno il «partito» per antonomasia, e la sconfitta storica del movimento operaio, continuano a pesare come un incubo sul cervello dei vivi, facendo sembrare ogni tentativo di riorganizzazione politica nel tempo presente un’operazione di piccolo cabotaggio, farsesca e fuori tempo.

Eppure per dare rappresentanza alle classi popolari che oggi si affidano di volta in volta al meno peggio, e sempre più spesso non vanno a votare, è necessario tornare a confrontarsi con questa questione. Non per un feticismo del partito come risposta a tutti i mali. Ma per un dato di realtà: il partito è stato, a partire dall’inizio della modernità, il mezzo attraverso cui le classi popolari hanno riunito le loro energie altrimenti disperse, e trasformato la loro debolezza individuale in forza collettiva, per sfidare il potere concentrato delle oligarchie economiche e politiche.

Questa necessità organizzativa, che come sosteneva Robert Michels è alla base del partito politico come «aggregato strutturale», è oggigiorno forse più evidente di quanto fosse a fine Ottocento e inizio Novecento, agli albori dei partiti di massa della sinistra europea. Viviamo in un mondo in cui la disuguaglianza ha toccato punte inedite, sia a livello globale che nazionale. Un mondo in cui la pandemia ha offerto nuove opportunità di arricchimento per super-ricchi come Jeff Bezos e gli Elon Musk, e i loro corrispettivi italiani e un orizzonte di ulteriore impoverimento per i lavoratori e la classe media condannati alla disoccupazione e a una precarietà sempre più insopportabile.

Lo squilibrio di potere tra i «pochi» e i «molti» non potrebbe essere più chiaro. Eppure a questo stato oggettivo di cose non corrisponde lo sviluppo di una soggettività capace di unire gli interessi delle classi popolari alla scala necessaria per potere avere qualche speranza di ribaltare un rapporto di forze oggi schiacciato in maniera inaudita a favore della classe capitalista. Il sindacato è in una fase storica di estrema debolezza a livello internazionale, con una rapida perdita di iscritti e popolarità, anche a causa del corporativismo che ne caratterizza ampi settori in molti paesi occidentali. Movimenti di protesta come gli indignados spagnoli, i Gilets Jaunes francesi o i Fridays for Future a livello internazionale, riescono a mobilitare centinaia di migliaia di persone e a dare voce al dissenso. Ma non riescono a tradurre l’ondata di indignazione crescente della popolazione nella capacità di incidere in maniera diretta sulle strutture di potere e le decisioni politiche.

In questo panorama di estrema frammentazione e evanescenza, la necessità del partito torna ad affacciarsi con forza, come l’unico mezzo capace di aggregare in forma continuativa e strategica gli interessi di ampi settori della popolazione privati di rappresentanza. Questa necessità è particolarmente evidente in Italia in cui da oltre un decennio la sinistra è stata incapace di costruire un partito politico degno di questo nome. Gli ultimi sondaggi attestano la sinistra in Italia attorno al 4% eppure nessuno sa a che partito esattamente questo bacino elettorale corrisponda. Invece di un partito capace di unire forze diverse accomunate da un comune interesse di classe, il panorama della sinistra italiana è dominato da gruppi, gruppetti, partitini, e cespugli di ogni sorta, formazioni che si uniscono solo in prossimità degli appuntamenti elettorali per poi squagliarsi in mille rivoli il giorno successivo alle elezioni (come successo per ultimo a Liberi e Uguali).

A ogni tornata elettorale compaiono nuovi nomi e nuove sigle, quasi si volesse confondere un già magro elettorato. Insomma, la sinistra italiana è oggi l’opposto di quello che si intende con lo «spirito di partito», un’accozzaglia indisciplinata, divisa in mille correnti aggregate attorno a leader dal carisma passeggero, incapaci di unire le proprie già misere forze. Se tornare a ragionare in termini di partito non può essere un toccasana, quantomeno mette il dito nella piaga: l’incapacità di costruire un’organizzazione politica duratura è una delle ragioni che hanno portato al presente disastro politico, privando le classi popolari di rappresentanza, proprio in un momento storico in cui ne avrebbero disperato bisogno.

Una nuova forma-partito

Ma di che tipo di partito abbiamo bisogno? Non è sufficiente evocare la possibilità di un «ritorno» dei partiti del passato. La sfida molto più difficile e necessaria al momento è inventare una forma-partito che sappia fare i conti con le condizioni sociali presenti. Del resto il partito politico è per sua natura una struttura estremamente malleabile, che muta in base alle condizioni storiche, e alle necessità organizzative di ogni epoca. Negli ultimi anni abbiamo assistito all’emergere a livello europeo di una nuova generazione di partiti che cercano di affrontare questa sfida organizzativa. Come ricostruisco nel mio libro I partiti digitali: organizzazione Politica nell’era delle piattaforme, edito da Il Mulino, formazioni come il Movimento 5 stelle in Italia, Podemos in Spagna e France Insoumise in Francia, pur essendo profondamente diverse tra di loro, sono la manifestazione di un ritorno della questione del partito politico nonostante spesso rifiutino il termine «partito» e preferiscano descriversi come «movimenti», e più precisamente l’emergere di un nuovo tipo di partito che descrivo come «partito digitale». Analizzare queste formazioni offre alcuni spunti per pensare che cosa significhi «fare partito» nel contesto presente.

Quello che accomuna «partiti digitali» come Movimento 5 stelle, Podemos e France Insoumise è il tentativo di costruire una struttura organizzativa capace di rispondere alle necessità organizzative di un tempo di iperconnessione e crescente individualizzazione. Queste formazioni adottano un modello di organizzazione politica estremamente snello, in cui la piattaforma partecipativa, come Rousseau nel movimento 5 stelle, o Participa nel caso di Podemos, sostituisce quello che Antonio Gramsci chiamava il «terzo elemento», costituito dalla struttura organizzativa locale e dalla burocrazia di partito, e la funzione di articolare il vertice del partito e la base. Questa svolta organizzativa non è ispirata solo a motivi di efficienza, ma è giustificata dalla promessa di una maggiore democrazia, che superi i limiti dei partiti tradizionali e offra ai cittadini nuovi canali di partecipazione e influenza sulle decisioni. Questo «partecipazionismo» che è tanto più evidente nel Movimento 5 stelle in Italia, con il suo slogan «ognuno vale uno», promette di superare lo strapotere dei rappresentanti e una democrazia della delega vista come inadeguata a rispondere a un’epoca in cui, si suppone, i cittadini non vogliono dare il potere ai delegati ma partecipare direttamente alle decisioni, senza passare per intermediari divenuti ormai inutili. A questo scopo tali formazioni hanno creato nuove forme di partecipazione in rete, come consultazioni sul programma politico, spazi di discussione su forum online, e referendum online in cui gli iscritti sono convocati per decidere su questioni chiave.

I risultati di questo nuovo modello organizzativo sono stati spesso deludenti. Nel caso del Movimento 5 stelle l’utilizzo della piattaforma digitale Rousseau, controllata dalla ormai nota Casaleggio Associati, è servita per imporre decisioni dall’alto, con i referendum online che si sono spesso trasformati in una semplice ratifica della base per le decisioni prese dall’alto. La «democrazia del clic» si è spesso rivelata meno democratica della democrazia della delega che puntava a sostituire. E le conseguenze politiche di questo sistema si sono viste nell’incapacità di queste formazioni di gestire in maniera efficace il dibattito interno, e consentire una gestione ordinata dei conflitti attorno alla leadership. I problemi interni, vissuti da Podemos e da France Insoumise, seppur di natura in parte diversa, discendono in buona parte dalla stessa tendenza a utilizzare la democrazia digitale come un sistema plebiscitario in mano agli iperleader di partito. Invece di servire a superare la rappresentanza e la delega di fatto queste piattaforme partecipative, sono state utilizzate dalla leadership come mezzo per assicurarsi un mandato pressoché assoluto, seppur rinnovato periodicamente attraverso le consultazioni della base.

Nonostante queste evidenti pecche, ai partiti digitali va riconosciuto il tentativo di aver provato a fare i conti con una società in cui le forme organizzative del passato non sono più in grado di intercettare la partecipazione dal basso. Mentre la sinistra radicale continua a celebrare in maniera nostalgica il vecchio partito di sezione e le riunioni del lunedì sera a cui va un gruppo sempre più sparuto di militanti disposti a seguire assemblee che spesso proseguono per ore e ore, i partiti digitali hanno dimostrato la possibilità di costruire una nuova politica di partecipazione di massa nel contesto presente. Esse sono riuscite a raccogliere centinaia di migliaia di iscritti, e a coinvolgerli in discussioni, decisioni e mobilitazioni sia in rete che nello spazio pubblico. Con tutti i suoi limiti, questa partecipazione in rete, spesso intrecciata con occasioni di partecipazione territoriale, come nei MeetUp dei 5 stelle o i circoli di Podemos, ha avuto un ruolo chiave nel mobilitare la base e nel successo ottenuto da questi partiti, portandoli in diversi casi, come per il movimento 5 stelle e Podemos, al governo del paese.

Tra rete e strada

Questo successo in termini di capacità di mobilitazione e efficienza organizzativa è in fin dei conti la ragione per cui oggi anche formazioni tradizionali come il Partito socialista spagnolo (Psoe), la Spd in Germania, e il Partito democratico in Italia stanno cominciando a dotarsi di piattaforme digitali, e consultazioni in rete dei propri iscritti. Perché riconoscono che le aspettative dei partiti del Novecento rispetto al ruolo del congresso di partito, la partecipazione assidua dei militanti alle riunioni locali, non sono realistiche nel contesto attuale, e che è necessario dotarsi di modalità organizzative che siano in linea con l’esperienza sociale contemporanea, facendo i conti con una società in cui il tempo necessario a discussioni approfondite in presenza è una risorsa estremamente scarsa per la grande maggioranza delle persone.

Ci sono diversi meccanismi di consultazione digitale che hanno senza dubbio un potere di allargamento della democrazia. Non a caso in Gran Bretagna l’ex primo ministro Theresa May ha proibito ai sindacati di utilizzare il voto online per indire gli scioperi, ben sapendo che ciò permetterebbe a queste organizzazioni di raggiungere più facilmente il quorum necessario a indire uno sciopero legale. Ma al contempo è evidente che la «piattaformizzazione» del partito ha seri limiti che devono essere superati per arrivare a un nuovo modello organizzativo che sposi efficienza e legittimità.

Prima di tutto è necessario evitare la tendenza alla virtualizzazione della partecipazione politica di cui sono diventati preda molti partiti digitali, slegando progressivamente la partecipazione online da attività a livello locale. Non c’è dubbio che i partiti politici abbiano bisogno di luoghi fisici di confronto e di aggregazione, in cui il dibattito sia veramente costruttivo e non si riduca alle «flame» in cui spesso finiscono le discussioni in rete. I partiti politici devono essere capaci di creare quella comunità, e quel senso di appartenenza che oggi solo alcuni movimenti sociali, pur con tutte le loro debolezze, riescono ancora a costruire. Si tratta di un compito integrativo, svolto dai partiti politici nel passato, su cui oggi c’è un lavoro enorme da fare, anche per smentire le pretese della destra populista di essere l’unica forza in grado di dare alle persone un senso di appartenenza e di luogo. Inoltre, bisogna superare il plebiscitarismo e l’allergia verso il confronto interno che la piattaformizzazione del partito politico ha spesso portato con sé. Insomma, se si vuole ricostruire una forza democratica e progressista che sappia fare i conti con il tempo presente è necessaria una sintesi. Serve un modello di partito che adotti tutto il buono che c’è nelle nuove pratiche di organizzazione digitale sperimentate da movimenti come il 5 Stelle, Podemos, e France Insoumise, ma che possa anche a garantire solidità organizzative e radicamento territoriale alle nuove organizzazioni per evitare che diventino spesso preda di quella cupio dissolvi che ha colpito molte nuove formazioni politiche, come visto nei conflitti interni che stanno divorando il Movimento 5 stelle.

Al contrario di quanto pensano alcuni feticisti del «Partito», con la P maiuscola, il partito politico non è una soluzione magica per i mali presenti. Perché, come sosteneva Gramsci, un partito è sempre la manifestazione politica delle tendenze della società in una determinata fase storica. Se oggi la sinistra italiana è incapace di organizzarsi in un partito, ma tende a frammentarsi in decine di partiti tribali che si uniscono in liste solo in occasione degli appuntamenti elettorali, è prima di tutto per il riflesso di mali profondi della società, e di quei settori sociali sempre più identificati con la classe media intellettuale, a cui la sinistra oggi dà rappresentanza. Innovare le forme di organizzazione, e dotarsi di piattaforme partecipative, unendole a un nuovo sforzo aggregativo a livello territoriale, sarà inutile se le cause strutturali dell’attuale disastro politico della sinistra, a partire dalla sua incapacità di parlare alle classi popolari non verranno affrontate.

Tuttavia è evidente che una vera ripartenza, per citare il famoso meme «la sinistra riparta da…» non può prescindere da una riflessione sulla forma partito e da un investimento su nuove pratiche organizzative. Perché la frammentazione, il settarismo e la visione di breve e brevissimo termine, che sono i mali cronici della sinistra italiana e le ragioni chiave alla base delle sue ripetute sconfitte, sono il risultato dell’aver smesso di guardare alla politica come il campo di azione del partito politico. Fare peggio di quanto si è fatto negli ultimi anni nella sinistra italiana, diventata ormai punto di riferimento negativo in tutto il mondo occidentale, è veramente difficile. Dato che i tentativi postmoderni di superare il partito politico e l’organizzazione e affidarsi esclusivamente all’effervescenza dei movimenti sociali non hanno dato grandi frutti, forse è venuto il momento di provare a costruire un partito degno di questo nome.

*Paolo Gerbaudo è un sociologo ed esperto di comunicazione politica. Dirige il Centro di ricerca sulla cultura digitale al King’s College di Londra.