La vita vissuta al fianco della letteratura. La politica e il tempo che passa. Tra ironia e disincanto, il professore si racconta mentre esce il Meridiano dedicato alla sua opera
di Simonetta Fiori
«È ROMA bello ’sto libro, e poi chi se l’aspettava? Non l’avrei mai immaginato quando sessant’anni fa facevo volantinaggio davanti alle fabbriche di Terni». Alberto Asor Rosa tiene tra le mani il Meridiano dedicato alle sue Scritture critiche e d’invenzione, in copertina una fotografia scelta da lui. «Mi sono riconosciuto in questo atteggiamento pensoso e osservatore insieme», ripete le due parole e nulla dice del taglio delle labbra che raccontano l’altro lato della faccenda, l’ironia e la straripante umanità conosciute da allievi, amici e da chiunque si sia imbattuto nel palindromico mondo asorosiano: un pensiero sistematico affilato come cristalli appuntiti, posizioni pubbliche dure, durissime, anche spiazzanti, e uno sguardo affettuoso sulle persone, sideralmente distante da una posa di snobismo intellettuale a cui potrebbe indulgere un maître à penser del suo rango. La casa è quella storica di Borgo Pio, un fascio di luce tra le sale che si rincorrono con eleganza discreta, al suo fianco Marina Zancan, da quarant’anni compagna di studi e sentimenti. Sul tavolino viene appoggiato il piccolo monumento in carta di riso e caratteri d’oro in cui Asor fatica a riconoscersi. «Sono sorpreso, davvero».
Sorpreso perché, professore?
«Non sono certo io il tipico autore da Meridiano».
E chi sono i tipici autori da Meridiano?
«Sono quegli autori i cui valori sono unanimemente riconosciuti, quasi mai destinati a quel genere di conflitti intellettuali e politici che hanno segnato la mia esistenza. I Meridiani registrano una fama incontestabile: non è il mio caso».
Lei può essere discusso sul piano politico, non sul piano del valore culturale.
«Forse non dovrei dirlo, ma penso che i dirigenti editoriali di questo Meridiano abbiano mostrato un notevole coraggio intellettuale. Il volume accoglie per intero opere come L’ultimo paradosso e Fuori dall’Occidente che sono rimaste ai margini del sistema culturale italiano. Ricordo ancora il sentimento di soddisfazione e sorpresa quando Umberto Eco, in occasione di un’iniziativa accademica per i miei ottant’anni, sottoscrisse pubblicamente la pagina conclusiva dell’ Ultimo paradosso : per la prima volta avvertivo la totale condivisione da parte di un personaggio dell’autorevolezza di Eco».
Ma lei è stato un accademico influente, un personaggio riconosciuto in molti modi.
«Ma certo, ho avuto un’ampia e soddisfacente carriera universitaria e quindi non voglio esagerare o essere frainteso, ma le posizioni da me espresse in questi sessant’anni non sono mai entrate nel circolo».
Non è entrato nel mainstream, questo sì. Ma ho l’impressione che il sentimento di antagonismo sia lei a perpetuarlo rispetto all’establishment culturale e non viceversa. Come se si portasse dietro il senso di estraneità coltivato fin da ragazzo, dai tempi di “Scrittori e popolo”, rispetto ai circoli culturali che contavano.
«Forse è stata la mia ricerca di alterità ad alimentare il senso di diversità che l’establishment culturale ha provato quasi sempre nei miei confronti. Il mio era un moto di reazione rispetto allo stato di cose esistente che ho cominciato a coltivare giovanissimo, gettandomi nella lettura di Marx e Nietzsche e del grande romanzo decadente europeo».
Il volume documenta un tratto del suo percorso intellettuale che la differenzia da tutti gli altri: mette insieme scritture critiche letterarie, scritture filosofico-politiche e scritture creative, ossia racconti e romanzi. Qual è il filo comune?
«Non so dirlo, se non con una spiegazione personale e psichica: ogni volta che ho esplorato un settore del mondo, con strumenti specifici, alla fine dell’indagine ho avvertito il bisogno non razionale ma istintivo di passare a un’altra realtà.
Ma non riesco a dare una definizione precisa di questa mia inclinazione».
Sicuramente interviene la natura palindromica annunciata dal suo eccentrico cognome.
«Più che un destino, una condanna.
Un nome così singolare mi ha esposto a equivoci di ogni natura. Per anni in classe sono stato chiamato “asino rosa”, per decenni solo Asor perché l’intero cognome era impronunciabile. Vuol dire che sono un soggetto difficilmente catalogabile, ma questo può comportare molti inconvenienti. La sa la storia del cognome?».
La racconti.
L’autore
«Pare che sia stata una curiosa operazione compiuta da un antenato bolognese, negli anni Trenta del XIX secolo. Il mugnaio Alessandro – stesso nome di mio padre – aveva due famiglie: una regolare che si chiamava Rosa e un’altra illegittima che fu costretto dall’allora governo pontificio a riconoscere con un altro cognome.
Da qui il colpo di fantasia che affiancò al nome regolare Rosa il suo contrario Asor, dando origine al palindromo».
Mario Tronti, suo grande amico fin dai tempi della rivista Classe operaia, l’ha definita “autocritica vivente della cultura italiana”. Si riconosce?
«Sì, a condizione di togliere il prefisso “auto” per le ragioni già illustrate: me ne sono sentito più fuori che dentro. Il senso critico è certo il motivo conduttore di una ricerca che voleva intervenire sul mondo per cambiarlo».
A un certo punto lei si è accorto che il pensiero critico non era più sufficiente per spiegare il mondo e ha voluto farsi autore di narrativa .
Che cosa non le bastava più?
«Avevo settant’anni, era finita l’esperienza accademica cominciata mezzo secolo prima. Alla pluridecennale sistematica costruzione di proposte politiche, culturali e letterarie si contrapponeva l’esigenza di scoprire da dove diavolo questa mia lunga storia cominciasse. E quindi è entrata in gioco la memoria, un meccanismo che ci proietta in un mondo in cui le cose si spiegano in modo diverso da come ero abituato a spiegarle. Con L’alba di un mondo nuovo è cominciata la narrativa memoriale che poi ha lasciato il passo alla narrativa tout court ».
Ma questo non significa che alla fine della storia è la letteratura – non la critica letteraria, politica o filosofica – ad arrivare al senso ultimo delle cose?
«Questo significa che alla fine c’è la scoperta della memoria e dell’essere, ma ciò non vuol dire che uno non possa tornare a esplorare la realtà in base a criteri di carattere analitico storico-politico-letterario. Dopo i romanzi ho scritto infatti un saggio su Machiavelli, anche se – lo ammetto – sarebbe stato scritto in modo molto diverso se non avessi avuto alle spalle l’esperienza della narrativa e della memoria».
Lei dice che la narrativa spiega meglio da dove si arriva e dove si è destinati ad andare. A questo proposito vorrei tornare su quella pagina dell’”Ultimo paradosso” che piacque tanto anche a Eco.
«L’ultimo paradosso è che uno sa tutto quello che gli serve per vivere nel momento in cui ha già vissuto.
L’esperienza si compie sul già fatto.
L’istante in cui si sa tutto quanto c’è da sapere, e nulla resta più da conoscere, è anche quello in cui si smette di vivere. La morte coincide dunque con il momento di massima esperienza dell’uomo. Io a questo credo molto».
È il momento conclusivo che lei presenta come disperante e al contempo felice, quasi una festa liberatoria.
«Se uno sa come vanno le cose, anche se le cose si configurano come un punto di arrivo insuperabile, questo saperlo ti conferisce una sorta di benessere intellettuale straordinario. Il benessere intellettuale non consiste solo nel successo mondano, ma nella serena consapevolezza che tutto si può guardare e affrontare, anche se sei a un punto di non ritorno della tua esperienza».
Questo è in fondo ciò che dice Cacciari alla fine del suo saggio introduttivo: il problema non è tramontare, ma saper tramontare.
«Massimo allude anche allo sconfitto che benedice la propria stessa sconfitta, quanto più detesta il campo dei vincitori. Questa sua conclusione mi è piaciuta moltissimo, anche perché intravvedo una totale corrispondenza in chi ha condiviso con me fin dai tempi di Contropiano un percorso unico nella storia dell’intellettualità italiana. Massimo afferra il valore positivo del tramonto. E per afferrarlo deve necessariamente condividerlo: sia sul piano esistenziale, sia su quello politico-culturale».
Un tratto che caratterizza la sua esperienza è la protratta contemporaneità vissuta sempre intensamente. Lei era già all’opera all’epoca di Togliatti e Vittorini e lo è ancora oggi con nuovi progetti.
Com’è il suo rapporto con il tempo?
«Il tempo non è mai stato un problema. Non ho mai avvertito il suo scorrere inesorabile perché continuo a realizzare me stesso nel medesimo modo in cui l’ho fatto nei settant’anni precedenti. A 87 anni, se mi volgo indietro, qualche sussulto psichico lo provo, ma ho una memoria lucidissima del passato. E quindi, non dovendo misurarmi con un vuoto assoluto, vivo il mio tempo nella piena continuità degli anni che passano. Non dico che sia facile, ma ci riesco. Anche perché realizzo realisticamente che, da qui a un paio d’anni, il problema sarà esaurito e io non avrò più niente da ricordare.
Questo può essere di conforto».