Un’esperienza ambigua del Terzo Reich sembra tornare attuale
di Claudio Magris
La «emigrazione interna» è un capitolo bruciante e discusso della letteratura tedesca, sul quale Marino Freschi — germanista autore di incisivi studi sull’Illuminismo, Mann, Kafka, l’età di Goethe e la letteratura ebraica — ha pubblicato un originale e forte saggio, Germania 1933-1945: l’emigrazione interna nel Terzo Reich, edito con la consueta generosa eleganza da Aragno. Con questo termine, divenuto oggetto di feroci polemiche e spesso inteso quale definizione ingiuriosa, si indicano quegli scrittori, artisti, intellettuali tedeschi che, pur non essendo nazisti e alcuni anche intimamente avversi al regime hitleriano, rimasero in Germania durante il dodicennio nero, spesso o quasi sempre continuando seppur non senza difficoltà a scrivere e a pubblicare, anziché seguire l’esempio di chi — come Mann, Brecht e molti altri — aveva scelto l’esilio. Naturalmente c’era chi, protetto da una grande fama, poteva scegliere l’esilio più facilmente di altri, il che ovviamente non toglie il grande significato morale e politico della scelta di tagliare il cordone ombelicale con la propria patria, la propria terra, la propria lingua — quella lingua che è una patria fondamentale per uno scrittore.
«Emigrazione interna» era divenuto un epiteto negativo, che sottolineava l’ambiguità di chi, soprattutto a guerra finita, voleva presentarsi come un appartato umanista fedele ai valori calpestati dal nazismo ed esibiva la sofferenza vissuta nel dodicennio nero. Nel suo saggio Marino Freschi analizza e racconta l’eterogenea e contraddittoria pluralità della «emigrazione interna». Con questo termine si abbracciano posizioni e figure diverse. Esso comprende autori nazisteggianti o comunque in armonia, sia pure in forme meno barbariche, con il regime e anche autori fedeli a un’idea profonda di umanità, che hanno saputo pure difendere anche in quegli anni con dignità, come ad esempio Ernst Wiechert.
C’è stata pure una grande, variegata cultura che è difficile classificare nei consueti termini politici — un sommo poeta come Benn e autori geniali come Jünger o Schmitt vivono, esprimono, criticano e talora fanno proprio quel nichilismo che è insieme una malattia e una verità dell’epoca. Dietro ad essi c’è Nietzsche, falsamente incluso per tanto tempo in una cultura confluita nel nazionalsocialismo e riscoperto quale tragico interprete e vittima di una trasformazione radicale dell’uomo (l’«oltreuomo», come ha scritto Gianni Vattimo); geniale «presbite strabico» — lo ha definito molti anni fa Guido Morpurgo-Tagliabue — che vedeva acutissimamente da lontano e male da vicino e coglieva la verità dell’epoca attraverso la deformazione che la stravolge ma ne coglie una verità essenziale. Nietzsche ha avuto la fortuna di morire tanti anni prima del nazismo e di non aver visto tanta pacchiana letteratura e cultura nazisteggiante che si arrogava il diritto di rappresentare il suo pensiero.
Personalità
Una grande, variegata cultura che è molto difficile classificare
nei consueti termini politici: comprende un sommo poeta come Gottfried Benn e autori geniali come Ernst Jünger o Carl Schmitt
Forse, anche se in modo radicalmente diverso, ci troviamo oggi in una situazione in cui una forma di emigrazione interna, soprattutto individuale, può essere una difesa della libertà, anche perché, diversamente da Joseph Roth esule a Parigi o di Thomas Mann esule negli Stati Uniti, non abbiamo alcun posto in cui emigrare e rifugiarci. Sta forse nascendo una società opaca e inesorabile, che sottopone tutti a un controllo totale della propria esistenza, anche grazie agli strumenti tecnologici. Una vecchia barzelletta diceva che in Inghilterra tutto ciò che non è esplicitamente vietato è permesso, mentre in Germania tutto ciò che non è espressamente permesso è proibito e nell’Unione Sovietica tutto ciò che non è vietato è obbligatorio. Stiamo forse avviandoci sempre più a vivere in un sistema, in cui il margine di reale libertà sarà sempre più ristretto e inavvertito.
In una società liberale ci sono pochi fondamentali diritti-doveri da assolvere e reati da punire secondo precise norme di legge; oltre e intorno a questi c’è — ci dovrebbe essere — il grande territorio della vita, di tutti e di ciascuno, e nessuno ha o dovrebbe aver diritto di chiedere ragione di preferenze, abitudini, gusti.
Ovviamente la lotta contro le varie e sempre più sofisticate forme di criminalità di ogni genere esige una rete complessa di informazioni, così come la lotta al virus richiede la tracciabilità di contagiati o portatori. Ma l’autorità inquisitoria dovuta alle competenti istituzioni dello Stato non compete a nessun altro. Al posto del Grande Fratello del famoso romanzo di Orwell, 1984, sembra esserci, anche e soprattutto nella mentalità, un impersonale termitaio, in cui la singola termite non obbedisce a un Capo supremo, ma fa quello che deve e non può né sa né vuole fare altro. Obbedire senza sapere di obbedire né a chi. Ci saranno nuovi emigrati interni?