di Vincenzo Trione
La storia dell’arte a scuola è ormai marginale: un grave errore
Cara Marianna, nella tua lettera cogli alcuni nodi delicati: la mancata valorizzazione delle competenze, la banalizzazione della cultura, soprattutto la marginalizzazione nei programmi scolastici dell’insegnamento della storia dell’arte. Che fu inserito nei licei classici dal ministro-filosofo Giovanni Gentile nella riforma del 1923. Nel corso dei decenni, quel visionario provvedimento è stato sempre più svilito, spogliato, svuotato di ogni dignità. Alcuni tra i momenti più recenti di questa lenta eutanasia. La riforma Gelmini (2008) taglia drasticamente gli insegnamenti di Disegno e Storia dell’Arte negli Istituti professionali; li ridimensiona nei Licei artistici; e li cancella nei bienni dei Licei scienze umane, nei Linguistici e negli indirizzi di Turismo e Grafica degli Istituti tecnici. Nel 2013, l’Anisa (associazione degli storici dell’arte) pubblica un appello: «Nel Paese dei Beni Culturali, impedire ai ragazzi di maturare un’adeguata conoscenza del proprio patrimonio storico-artistico significa ostacolare una formazione culturale degna di questo nome (…). Se non si impara la storia dei luoghi e dei monumenti che ci circondano, come si potrà capire chi siamo?». Per dare una risposta a domande analoghe, al tempo della cosiddetta Buona Scuola (governo Renzi), alcuni esponenti del Pd lanciano lo slogan «Reintrodurremo la Storia dell’arte nella scuola italiana!». Uno slogan, appunto. Smentito dai successivi atti politici. Diretta conseguenza: un dilagante analfabetismo visivo. Che va collegato al pericoloso (e sistematico) attacco alle humanities, spesso giudicate quasi un optional dai ministri succedutisi negli anni.
Intrattenimento? Evasione? No. La storia dell’arte dovrebbe essere intesa come una presenza necessaria, ineliminabile nella formazione delle generazioni future. Perché suggerisce un dialogo sempre problematico con i fenomeni; è fondamento della coscienza critica; stimola l’intelligenza creativa; offre gli strumenti per abitare diversamente il mondo; aiuta a collegare il reale e l’immaginario; disegna i confini all’interno dei quali geografie non contigue — storia, letteratura, filosofia, scienze e religione — pur salvaguardando differenze, specificità e tensioni reciproche, si co-appartengono e scoprono finalità e significati comuni.
E, tuttavia, bisognerebbe abbandonare un’idea talvolta troppo conservatrice e decadente di questa disciplina, per porla in risonanza con il cinema, la fotografia, l’architettura, il design e la moda, delineando i confini di una sorta di galassia delle culture visuali, sulle orme della lezione di studiosi come Ragghianti, Argan, Brandi, Menna e Dorfles.
Ma la storia dell’arte, come ricorda Marianna nella sua lettera, è soprattutto altro. Un sapere che ha il valore di un decisivo baluardo civile, politico. Va concepita, perciò, non come esperienza a circuito chiuso, né come mera alfabetizzazione su opere, tecniche e vite di pittori, ma come alta forma di educazione civica, indispensabile per permettere alle nuove generazioni di diventare davvero coscienti della bellezza della propria nazione. Del resto, come aveva sottolineato Argan, «la cultura di un periodo si costruisce con l’arte, non meno che con il pensiero scientifico, filosofico, politico, religioso».
Una didattica nuova
Non basta aumentare le ore: vanno creati collegamenti con cinema, moda e design
Uscire dalle sabbie mobili dell’indifferenza. Acquisire una maggiore consapevolezza dell’unicità della nostra civiltà artistica, caratterizzata da una straordinaria stratificazione di segni. Capire e conoscere meglio l’identità del nostro Paese: le sue contraddizioni, il suo carattere. Indignandosi anche per il degrado sofferto dalle nostre città, dal nostro paesaggio, dal nostro patrimonio, corpo ferito dalla speculazione, da una delittuosa incultura. Ecco ciò che consente un’approfondita e dinamica istruzione visuale, cui occorrerebbe finalmente attribuire la dovuta centralità nei palinsesti scolastici.
Sin dalle elementari, i cittadini di domani dovrebbero imparare non solo a leggere e a far di conto, ma anche a «vedere» le opere di Giotto, Michelangelo, Leonardo, Raffaello, Tiziano, Caravaggio, Boccioni, de Chirico, Cattelan. È quel che aveva invitato a fare già Roberto Longhi, il quale aveva chiesto di ampliare «l’asfittico spazio concesso a quella storia dell’arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva, se vuole avere coscienza intera della propria nazione». Un invito rimasto inascoltato.
Ma non basta aumentare le ore di lezione. Vanno ridefinite le modalità didattiche. Qualche piccolo suggerimento a chi insegna nelle scuole. Trattate la storia dell’arte come una materia di bruciante attualità. Portate i vostri studenti nei musei e nelle gallerie, davanti ai quadri, raccontando le storie nascoste tra le pieghe delle drammaturgie pittoriche. Servitevi anche di siti come Google Arts per analizzare dettagli poco evidenti di dipinti e sculture. E ancora: cercate di partire dall’attualità. Muovete da quello che i vostri allievi vedono intorno a sé, svelando le connessioni segrete tra il dramma dei migranti e le visioni di Caravaggio, tra la filosofia di Steve Jobs e le profezie di Leonardo, tra il voyeurismo dei reality e i film di Warhol, tra le figurazioni primitive di Lascaux e le scritture corsare di Banksy.
Chi si occupa di pittura, aveva scritto Giuliano Briganti, dovrebbe considerare i quadri non come punti di arrivo, né come testimonianze e neanche come semplici prove di qualcosa, ma come punti di partenza. «La storia dell’arte è una cosa in cui è necessario travasare noi stessi e che quindi ci riguarda direttamente tutti: uno specchio in cui si riflettono i motivi più vivi e inquieti del nostro tempo».