L’anno scorso, precisamente il 13 ottobre 2019, un evento mediatico di portata mondiale è stato capace di scuotere il mondo dei videogame: il lancio del secondo capitolo di Fortnite, noto videogioco gratuito online sviluppato dalla Epic Games. Nel corso di questo evento, un buco nero si è generato all’interno del mondo virtuale, risucchiando qualsiasi cosa. Per qualche giorno, sullo schermo dei gamer che tentavano di connettersi al gioco, non si è proiettato nient’altro che un buco nero fluttuante. Niente è stato risparmiato: tutto il mondo mediatico di Fortnite è imploso nel nulla: dai videogiocatori ai canali di social media che la piattaforma aveva su Instagram, Facebook e Twitter. I contenuti di queste pagine sono tutti stati eliminati e rimpiazzati da immagini nere, simulando appunto la nullificazione del mondo.
“La fine”: così è stato chiamato questo evento. Ma non c’è fine senza un nuovo inizio: al di là di tutte le teorie sulla fine di Fortnite, l’evento è stato un’operazione di marketing geniale, il cui obiettivo era sia quello di promuovere il nuovo capitolo del videogioco, sia di intercettare nuovi giocatori e un nuovo pubblico. Un’operazione che ha prodotto notevoli risultati: in quel periodo, si è parlato di Fortnite ovunque, in ogni media possibile. Sono bastati pochi giorni – giusto il tempo necessario a far caricare le novità sui server della Epic Games – per far tornare in attività il gioco: un nuovo mondo è ricomparso, insieme ad una grafica migliorata, nuovi personaggi aggiuntivi, una mappa rivoluzionata, nuove armi e nuovi accessori. Insomma, una nuova storia da scrivere e un nuovo mondo da raccontare ed esplorare. Ma, sebbene siano state ingenti, queste novità hanno intaccato solo marginalmente la struttura del gioco. È come se Fortnite si fosse spogliato e rivestito con degli abiti più sgargianti senza cambiare la sua vera essenza, ovvero lo schema di gioco per cui è così tanto apprezzato.
La generazione del buco nero in Fortnite
C’è qualcosa che accomuna il buco nero di Fortnite alla pandemia di Covid-19: è come se il primo avesse anticipato e prefigurato ciò che è avvenuto nel corso della seconda – il modo in cui si è sviluppata e a cui si è reagito. Ironia della sorte, ancora una volta si può affermare che il virtuale è stato in grado di anticipare il reale. Entrambi i mondi – quello di Fortnite e quello reale – hanno subìto un grande reset, come d’altronde la pandemia è stata già definita sulle colonne de L’Intellettuale Dissidente. E come tutti i grandi reset occorre del tempo prima che il dump – il caricamento – del cambiamento si completi. In Fortnite, sono bastati tre o quattro giorni per caricare sui server della Epic Games la nuova isola virtuale; nella realtà ci sono voluti tre mesi circa. Ma i cambiamenti a cui abbiamo assistito e a cui assisteremo ancora, sono veramente così radicali?
“Il mondo si sgretola,
rotola via.
Succede
è successo:
si sgretola e via”
CCCP – Narko’$
Sbaglia chi sostiene che la pandemia sia stata in grado di sconvolgere la globalizzazione e il sistema capitalistico. Le crisi sistemiche annunciate agli inizi di marzo si sono rivelate tutte false – eccezion fatta per la crisi economica che ora sta investendo quelle categorie arrestatesi a causa del lockdown. Il coronavirus è stato ed è ancora un fenomeno iperreale: si è in primo luogo occupato di infettare tutta l’infosfera e l’immaginario collettivo, contagiando innanzitutto i sani che sono rimasti sani; e solo dopo si è occupato di diffondersi nella realtà materica, grazie soprattutto al delirio psicotico che ha suscitato. Questa sua scaltrezza gli ha permesso di colpire laddove occorreva colpire e di accelerare quei processi che erano già in moto da tempo. In merito a questo tema, il nuovo video dell’Associazione Gianroberto Casaleggio afferma:
Dopo il Covid-19, la storia ha messo il fast forward di 10 anni e il cambiamento è arrivato prima ancora di poter essere capito.
Gianroberto Casaleggio
l futuro del tempo, (Associazione Gianroberto Casaleggio)
Certo: si potrebbe obiettare che la globalizzazione sia stata messa in crisi per un momento – soprattutto nella fase più acuta della pandemia. Invece il capitalismo non è stato per nulla scalfito e, al contrario, è stato in grado di trovare subito la chiave per reinterpretare se stesso. La forma di razionalità incarnata dal capitalismo, ha sfruttato la pandemia di Covid-19 come se stesse cogliendo un’opportunità, che le ha permesso di dirigersi violentemente verso quell’obiettivo che stava già perseguendo da molto tempo: il digitale.
Dunque il cambiamento epocale portato dal Covid-19 non è la fine della globalizzazione o del capitalismo. La vera differenza – tangibile soprattutto a livello cognitivo ed esistenziale – sta in questo semplice fatto: se prima si era consci che la strada del capitalismo sarebbe stata quella del digitale e che, prima o poi, sarebbe stato necessario scappare dall’alienazione del virtuale; ora si esperisce la digitalizzazione totale delle nostre vite e si percepisce concretamente l’esigenza di fuggire dal digitale. Durante il lockdown siamo stati inghiottiti dai nostri schermi perché il mondo digitale ha rappresentato l’unico mezzo con cui interagire con l’Altro. Senza questa possibilità infatti – senza i nostri schermi, senza i nostri smartphone – non avremmo mai accettato le misure di distanziamento sociale e le condizioni imposte dal governo. Durante il nostro isolamento, ci siamo buttati a capofitto nelle nostre finestre virtuali: abbiamo assimilato i codici dei sistemi digitali che abbiamo usato; abbiamo appiattito il nostro corpo e il nostro volto sullo schermo e contemporaneamente ci siamo abituati a vedere il volto dell’Altro appiattirsi; abbiamo adagiato la nostra necessità espressiva sulla superfice degli algoritmi, insieme alle nostre abitudini e ai nostri comportamenti.
Ora di Giovanni Lindo Ferretti
Dunque, ora, sentiamo la necessità di fuggire da questo mondo digitale e virtuale – di gettare il nostro smartphone e di chiudere il nostro computer. Anche se – occorre sottolinearlo – questa presunta fuga non è altro che il frutto di una mera illusione. Infatti, la principale caratteristica dell’iperrealtà non è la finzione, ma la compromissione e l’annullamento della differenza tra la simulazione e la realtà. Non c’è nessuna polarizzazione tra le due dimensioni: queste collidono, diventando tra loro indistinguibili. Occorre dunque fare i conti con questo dato di fatto: non si può fuggire dal virtuale spegnendo lo schermo. Il virtuale lo si ritrova anche fuori, nella vita concreta: nelle nuove forme d’interpretazione del reale; del vivere il reale. Quindi non ci può essere una vera fuga, perché il virtuale è già ovunque – nei nostri modi di agire, di pensare e di relazionarci con l’altro – e il Covid-19 non ha fatto altro che rendere irrimediabile questa condizione. Così come su Fortnite non si può tornare indietro nel mondo del primo capitolo, così avviene nel nostro: la strada non è solo tracciata; siamo bensì giunti a destinazione. È bastato desertificare il reale per predisporre una digitalizzazione di massa, a cui nessuno può dirsi escluso. O meglio, quasi nessuno.
Il nuovo proletariato
La prima figura che occorre delineare è eterogenea e sintetizza in realtà una moltitudine di fenomeni visti in rete nella fase 1 della pandemia. Fenomeni che sono però uniti da uno stesso atteggiamento nei confronti del rapporto tra il Covid-19 e il digitale. Si tratta di coloro che, nella tragedia del distanziamento sociale assoluto, sono riusciti a scorgere un’opportunità: investire il proprio tempo libero per promuovere se stessi nei social media in un’ottica professionale. In attesa di tempi migliori, questa categoria antropologica ha vissuto la pandemia come un momento per mettersi in vetrina e costruire nuove relazioni online; ha trasformato se stessa in un costrutto digitale, seguendo una logica competitiva. È il nuovo proletariato del capitalismo digitale, che è riuscito ad intuire la portata del cambiamento e si è impegnata a ricostruire il proprio social index – la propria reputazione digitale – attraverso la sovrapproduzione di contenuti. Dirette facebook, webinar su Linkedin, post seriosi, like, richieste di collegamenti, restaurazione di profili ormai in disuso – tutti contenuti che insieme alimentano la nuova ed entusiasmante narrazione del digitale. Se infatti è vero che ogni singolo utente ha cercato di costruire il proprio sé digitale attraverso la creazione di contenuti condivisi nei social media; è anche vero che, prendendo in considerazione tutti i discorsi digitali che gli utenti hanno costruito, a giovarne è stato soprattutto il capitalismo digitale come struttura sistemica: incentivando la profusione di singoli discorsi espressi da singoli utenti, alimenta al contempo la propria grande narrazione. Consciamente o inconsciamente dunque, ogni singolo utente lavora non solo per sé, ma anche nella prospettiva di mantenere in funzione il sistema che lo ospita. Più che per il nuovo proletariato dunque, la pandemia di Covid-19 è stata un’opportunità soprattutto per il digitale, che è riuscito a configurarsi come ciò che ha permesso di risolvere i problemi del lockdown.
Giuseppe Conte è diventato un meme!
La seconda figura da delineare è sintetizzata nel premier Giuseppe Conte, colto in uno specifico momento della pandemia: quando durante la conferenza stampa del 10 aprile 2020, ha criticato esplicitamente le dichiarazioni fatte da Matteo Salvini e Giorgia Meloni riguardo le indiscrezioni sull’utilizzo del MES. In quel preciso momento, Conte ha trasformato se stesso in un meme.
I 2 minuti che hanno reso Giuseppe Conte un meme
Prima di continuare a delineare questa figura però, occorre avere ben chiari alcuni concetti legati al mondo dei media. Marhall McLuhan ha sostenuto che la storia dei mezzi di comunicazione è la storia del continuo tentativo di offrire una rappresentazione della realtà immediata, diretta – senza dare l’impressione che quella stessa realtà è invece mediata da un intermediario, da un mezzo tecnologico. Ogni nuovo media infatti tende a rappresentare la realtà in modo immediato e trasparente – cerca di rendersi invisibile agli occhi del fruitore, facendogli credere di entrare in contatto diretto con la realtà. E ogni nuovo mezzo di comunicazione, tendendo verso l’immediatezza, spinge verso una condizione di ipermediazione tutti i vecchi media. La loro presenza come mezzo viene svelata al fruitore, che solo ora è in grado di percepire la sua mediazione. A questo processo poi, ne consegue un altro, che viene definito “rimediazione”: si tratta del tentativo dei vecchi media di assorbire qualche nuova forma di immediatezza. Per sopravvivere, i vecchi mezzi di comunicazione devono riadattarsi alla nuova condizione mediatica – e questo avviene attraverso l’appropriazione dei meccanismi inediti portati dai nuovi media. Succede anche oggi, quando quel vecchio media che è la televisione cerca di diventare smart; o quando i programmi televisivi integrano ciò che avviene nel mondo dei social media.
Ecco, Giuseppe Conte in quella conferenza stampa ha reso palese la sua rimediazione. Infatti, la politica, a suo modo, può essere considerata come uno dei primi media ad essere apparsi nella storia dell’uomo: il suo compito è quello di mediare le istanze del potere con quelle del popolo. Nella sua accezione attuale, è il mediatore tra le istituzioni governative e i cittadini. Essendo dunque configurabile come un vecchio media, la politica risulta essere profondamente ipermediata – e questa non è una novità. Ma in un momento come quello dell’emergenza Covid-19, non poteva essere di certo un vecchio media a richiedere sacrifici economici, sociali ed esistenziali così enormi. La sua inestinguibile ipermediazione non avrebbe condotto ad un buon risultato. Conte ha dovuto dunque rimediare se stesso per assumere un carattere autorevole, per acquisire un po’ di immediatezza. I suoi discorsi e la sua narrazione dovevano rappresentare la realtà così com’era, in modo diretto, senza far intuire la presenza di un’effettiva mediazione agli ascoltatori; ai cittadini. E quindi Conte si è trasformato in un meme, una nuova tipologia d’immagine che risulta essere immediata: in primo luogo, perché è nata nei social media, che sono mezzi di comunicazione in grado di rendere immediata la socialità prodotta al loro interno; in secondo luogo, perché attraverso l’uso del sarcasmo, pretende di rappresentare la realtà in modo oggettivo.
Quindi Conte si è trasformato in un meme proprio per acquisire immediatezza e trasparenza, affinché la sua comunicazione arrivasse agli ascoltatori senza la percezione di filtri o mediazioni; dunque senza che potessero criticarlo. Anziché essere percepito come un punto di vista particolare e specifico di un determinato orientamento politico, il suo discorso è stato ascoltato come se la realtà stesse pronunciandosi in modo diretto. Diventa in definitiva un fenomeno iperreale, ovvero più reale del reale stesso – e come lui, lo è diventato tutto il sistema di accentramento del potere messo in piedi per l’occasione, compreso il Dipartimento della Protezione Civile, con il suo bollettino quotidiano sparato in diretta nei vecchia e nei nuovi media.
L’imperturbabilità di Chiara Ferragni
La terza e ultima figura è invece sintetizzata in Chiara Ferragni – e più in generale nei ferragnez, ovvero il trio composto dalla sopracitata influencer, da suo marito Fedez e da loro figlio. Lei non ha avuto la benché minima necessità di dover trasformare sé stessa digitalmente, così come invece hanno fatto i nuovi proletari e Giuseppe Conte. Non ha patito alcuna crisi in questo senso: il suo mondo era già questo.
Essendo già una prosumer perfettamente realizzata, non ha dovuto modificare nessuna abitudine di vita, se non il fatto di non poter uscire di casa – dettaglio marginale, giunti a questo punto. Perché lei non ha dovuto rimediare se stessa: il suo approccio con il reale non è mutato perché la sua vita era già invasa dal virtuale. La sua esistenza era immersa nel digitale già prima della pandemia: era già la norma. Si è adattata alla conseguenze della pandemia con semplice naturalezza, proprio come ha fatto il neocapitalismo: si è adattato alla nuova circostanza, imboccando un sentiero che era già tracciato da tempo.