I giudici e la politica debole
di Luciano Violante
Le relazioni costituzionali tra politica e magistratura sono frutto di un patto di libertà fondato sulla fiducia. La magistratura deve esercitare i poteri che la politica le attribuisce per garantire le libertà e i diritti dei cittadini da ogni aggressione e il Parlamento deve definire con chiarezza i confini tra la sovranità della politica e l’indipendenza della giustizia. Questo sulla carta. In pratica, le cose stanno diversamente. Una politica debole ha attribuito alla magistratura penale il compito di vigilare sulla moralità dei propri comportamenti e su quelli di tutti gli altri cittadini.
Leggi vaghe e indeterminate; incertezza sui limiti delle responsabilità penali, amministrative e contabili; effetti criminalizzanti connessi a comunicazioni giudiziarie teoricamente dirette a tutelare il cittadino; interdizioni e perdita del controllo di aziende sulla base del semplice sospetto; impunità garantita per la fuga di notizie lesive della reputazione dei cittadini e delle imprese. Non per sua scelta, il magistrato penale, che aveva il compito di accertare le responsabilità dei cittadini, è diventato controllore del buon andamento della politica, della pubblica amministrazione e delle imprese. Nella maggior parte dei casi interverrà un’assoluzione; ma nel frattempo i danni economici, per la reputazione e per le carriere professionali diventano irreparabili. Le forze politiche, nell’illusione di acquisire consenso, si sono addirittura spogliate del potere di decidere i nomi dei candidati alle elezioni e hanno attribuito alla magistratura penale il compito di stabilire chi può essere candidato. Successivamente alcune commissioni antimafia si sono assunte arbitrariamente il compito di redigere liste di presunti “impresentabili”, che più di una volta si sono dimostrate viziate da gravi errori. In qualche sentenze comincia ad apparire la figura del “coinvolto”, persona estranea alle imputazioni, ma nota e che perciò conferisce lustro alle indagini.
Oppure ci si dilunga su giudizi morali che non spettano al giudice. Molti si stupiscono della decadenza del ceto politico. Ma occorre un grande spirito di servizio per essere disponibile a una candidatura, con il rischio di vedere compromessi reputazione, patrimonio e professione. Si voleva l’impossibile Paese delle vestali; si è ottenuto un Paese umiliato per non esserlo divenuto. Di settimana in settimana si succedono con gravità crescente notizie che mettono in dubbio la correttezza di alcuni magistrati per poi ricadere su tutti gli altri. Prima che giunga un potere regolatorio non democratico, che imponga i propri interessi, dev’essere la stessa magistratura a prendere atto della insostenibilità della situazione. Nessuna democrazia può vivere a lungo senza giudici credibili e rispettati. Solo un riassetto dei poteri può ricostruire una fase di normalità costituzionale. È illusorio confidare nelle capacità taumaturgiche di una nuova legge elettorale per il Csm; sinora, se non erro, ne sono state approvate sei e nessuna ha risolto i problemi che ne avevano sollecitato l’emanazione.
È difficile che la prossima riesca dove le altre hanno fallito. Vanno invece ridiscusse le modalità del governo interno dei magistrati, l’assetto del Csm e quello dei consigli giudiziari. Una magistratura che è diventata parte della governance nazionale ha bisogno di nuove strutture e nuove regole, semplici e inoppugnabili. La gran parte dei magistrati che lavorano nei tribunali, nel Csm e nei consigli giudiziari ha la forza morale per imporre a sé stessa e alla politica le scelte necessarie, con la determinazione propria dei tempi di crisi.