Il tutto con una vistosa eccezione: l’Italia. Una nazione che, sin dal debutto della sua tribolata unificazione, confermava la difficoltà a essere un «Paese normale».
UnPaese che ha fatto da incubatore per forme molto virulente – e destinate a fare scuola nel resto del Vecchio continente – di antiparlamentarismo e populismo. Questa condizione di anomalia – che i più benevoli chiamano «specificità» – la si rivede, infatti, all’opera anche in riferimento all’ascesa un po’ dovunque della tendenza politica «New Green». Con una difformità rispetto al resto dell’Unione Europea tanto dal lato dell’offerta politica, poiché non nasce nulla di simile ai nuovi partiti verdi, quanto su quello della domanda, perché, al di là delle mobilitazioni (di tipo subpolitico) dei «Fridays for Future», non sembra proprio esserci una richiesta in tal senso da parte dell’opinione pubblica. Certo, ci ha messo lo zampino pure il coronavirus, con l’impossibilità di scendere in piazza per motivi sanitari, che ha spento il movimento degli studenti contro il riscaldamento globale. E, come continuano a mostrare ricerche di opinione e analisi del sentiment collettivo, i giovani italiani risultano nella loro maggioranza più in linea con il resto della popolazione nazionale di molti dei loro coetanei europei, e dunque meno progressisti (specie dal punto di vista dei diritti civili e della tutela degli ecosistemi).
I Verdi nordeuropei rappresentano il soggetto politico che ha intercettato per primo – insieme al neoconservatorismo thatcherian-reaganiano – la svolta postmoderna, presentandosi da subito come partito-movimento. All’insegna di un’immagine che non appare di establishment e di un orientamento – via via accentuatosi al passare del tempo – sostanzialmente postideologico e pragmatico, che, di recente, li ha portati in alcuni Paesi a governare con il centrodestra non populista. E qui si ritrova un’ulteriore differenza con l’Italia dei condoni e dell’abusivismo, e dell’ecologismo politico «rossoverde» molto ideologico. Dove, a fronte di un significativo associazionismo ambientalista, le frastagliate liste elettorali verdi del passato hanno espresso una spiccata vocazione minoritaria, lasciando così spazio all’ecologismo regressivo (tra «sindrome Nimby» e «decrescita felice») del Movimento 5 Stelle.
Il «New Green» all’europea è una scelta politica tipicamente postmaterialista, mentre il voto nostrano continua a rispondere largamente a istanze e richieste – che erano caratteristiche dei partiti socialcomunisti, e lo sono ora di quelli populsovranisti – di «sicurezza materiale»: economica o «fisica» (la paura o il fastidio verso i migranti). È, quindi, verosimile che la crisi sociale dell’era Covid rilancerà potentemente il voto di tipo materialista. Relegando pertanto l’issue ambientale – a dispetto di tanti bei proclami – in una posizione assai secondaria e marginale. E facendo persistere anche in questo ambito l’anomalia italiana.