Passeggiate conversando con Marc Fumaroli

Marc Fumaroli in Parigi-New York e ritorno. Viaggio nelle arti e nelle immagini ricorda un seminario presso l’Institute for Advanced Study di Princeton tenuto da Irving Lavin (1927-2019), studioso del quale cade qui opportuno rammentare almeno il suo Caravaggio e La Tour: la luce occulta di Dio. Fumaroli rammenta che «Irving iniziò col proiettare l’immagine di un grande dipinto verticale di Mark Rothko: due zone di colore, l’una scura e l’altra chiara, separate da un sottile orizzonte di filamenti tremolanti, che lasciavano trasparire la grana della tela. Come descrivereste questo quadro? Chiede Irving ai presenti. Silenzio.

Prendo coraggio e mi sento di dire con audacia: ‘È una traduzione pittorica del Fiat lux della Genesi, parola biblica che un retore greco di Alessandria, dopo averlo letto in traduzione nella propria lingua, citò, nel primo secolo della nostra èra, come un esempio straordinario di brevità sublime: dire il meno per far intendere il più’». All’epoca Fumaroli confessa che non aveva mai visto un Rothko e dice di aver parlato «da retorico», tanto da chiedersi «di che cosa avevo voluto immischiarmi?». Incerto su come la sua affermazione sarebbe stata valutata dai convenuti, «con mio grande sollievo, scrive, Irving accolse il mio suggerimento e lo proseguì con tutta la sua scienza di iconologo e di teologo dell’arte cattolica, sia medievale che barocca, sulla breve reviviscenza moderna, newyorkese e laica di una grande arte contemplativa e simbolica. L’assenza di immagine non implicava l’assenza di forma e di senso». In questi sette otto giorni, dopo la notizia della sua scomparsa avvenuta il 24 giugno scorso, sono riandato con la memoria ad un seminario con Fumaroli presso la Scuola di dottorati della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena.

Era stato invitato da Laura Barile e, assolto l’impegno di quella sessione di studio, egli decise di trattenersi a Siena tre o quattro giorni ancora. La primavera, che fa verdi le colline intorno e diffonde i profumi della campagna, pare ammorbidire con le sue brezze tiepide i mattoni, i travertini e i marmi della città nella stagione che è forse la perfetta per visitare gli antichi suoi palazzi, percorrerne le strette vie fino all’aprirsi di certe piazze che tengono alcunché di campestre nello slargarsi innanzi alle facciate delle chiese: San Francesco, i Servi. Passai quei giorni senesi con Fumaroli, ben intenzionati entrambi ad evitare i luoghi dell’accademia. Commentare Duccio davanti alla Maestà. La fascinazione per la Santa Barbara di Matteo di Giovanni. L’allegria che prende tra i fasti mondani di Pinturicchio. Molti ragionamenti sulla pittura in quelle mattinate e in quei pomeriggi.

E un argomento nelle nostre conversazioni ritornò allora più volte: proprio quello del seminario di Lavin a Princeton, la questione del Fiat lux. Ricordo che il tema era stato toccato una prima volta a cena, a Monteriggioni. Condividevo, riguardo alla ricerca di Rothko, il diretto riferimento alla luce ‘biblica’, ma obiettavo a Marc ch’egli introducesse come propria di Rothko una qualsivoglia resa pittorica dell’orizzonte che io, invece, ritenevo gli fosse al tutto estranea. Sostenevo che la meditazione di Rothko sul divino si appoggiava ad una rappresentazione della luminosità quale può condensarsi e permanere entro una nuvola. Ed è nella presenza d’una nube che Mosè avverte la presenza di Dio. Una luce che circonda, compenetra fino ad annullare ogni distanza.

La nostra conversazione, quando tornava sul tema, prese allora a riflettere la questione della luce ragionando sul vicino e sul lontano, cioè sulle implicazioni spaziali quali e come si formulino, in virtù della luce, in pittura, un ambito di approfondimento molto attraente. Rothko opera su supporti di grande formato, superfici assai estese che ambiscono alla dimensione d’una intera parete. Quale dimensione, per converso, è da privilegiare al fine di dar conto delle distanze, del lontano in pittura? E convenimmo che è nel piccolo formato che il lontano si afferma, come si può constatare nel dittico de I Signori di Urbino di Piero della Francesca.

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