stefano passigli
L’editore ed ex parlamentare: investire sul sapere e offrirsi al turismo di massa sono scelte incompatibili
Una Firenze che ha smesso di produrre cultura, in un Paese in cui la politica discute di potere e non di progetti. Il professor Stefano Passigli, docente di Scienza della Politica ad Harvard e alla Cesare Alfieri, parlamentare repubblicano e progressista, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma anche editore, appassionato di musica e di arte, riflette con pessimismo sulle prospettive del post pandemia. Con una stoccata contro l’ipotesi dello stadio della Fiorentina a Campo di Marte.
Professor Stefano Passigli, con che stato d’animo vive questa stagione di crisi e smarrimento del Paese?
«Con grande preoccupazione, perché è una crisi istituzionale, economica e sociale che aggrava le nostre debolezze strutturali e aumenta le differenze sociali, le divisioni tra ricchi e poveri. Vedo un parallelo, ma in negativo, con un’altra stagione difficilissima della nostra storia, col 1943, con la guerra civile e il successivo dopoguerra. Vedo molte cose in comune, ma allora ne uscimmo più forti, grazie anche una classe politica che, per quanto molto divisa sui contenuti, era molto unita su alcuni valori, a partire dalla necessità di una Costituzione, di modernizzare il Paese, di aprirlo al libero scambio e all’Europa».
Oggi invece la nostra classe politica non le dà la stessa fiducia?
«Oggi le divisioni non sono sui contenuti, perché i contenuti non ci sono. Le divisioni sono sulla politica politicante, sul potere, non ci sono progetti. Inoltre, il titolo V della Costituzione, durante la pandemia, è stato causa di un conflitto istituzionale nei rapporti tra Stato e Regioni, perché non è stata prevista una clausola di supremazia in favore dello Stato in caso di emergenza».
Parla di progetti. Da cosa si dovrebbe partire?
«Nel dopoguerra, la grande capacità dell’Italia fu quella di far funzionare un’economia mista tra pubblico e privato. Oggi invece lo Stato si limita a fare da finanziatore, a fornire denaro a basso costo. Invece dovrebbe regolare, e ancora di più investire. Ad esempio, la banda larga in un paesino di montagna aspettiamo forse che la porti un privato? Serve un grande New Deal, in cui lo Stato affianchi i privati, ma non certo con provvedimenti assistenziali come con Alitalia».
Da questa stagione non escono bene neppure intellettuali e scienziati: negletti, talvolta derisi, hanno anche dato vita a fazioni di tifosi.
«C’è uno scollamento tra scienziati e opinione pubblica, che nasce da anni di delegittimazione della scienza. Mi riferisco a campagne come quella dei no-vax o quella dell’uno vale uno. Col coronavirus, che è un fatto nuovo, ovviamente gli scienziati sono dovuti andare anche per tentativi. E molti non capiscono che la scienza mai ha dato risposte immediate a un fatto nuovo. Serve tempo».
Guardiamo alla nostra regione. Si può ancora parlare di Toscana Felix?
«Quella di oggi non è una Toscana Felix e chi ci governerà dal prossimo autunno dovrà porsi come primo obiettivo la crescita del prodotto interno lordo. Abbiamo trascurato troppi nostri punti di forza: ad esempio, se il settore della pelletteria sicuramente si riprenderà una volta finita l’attuale difficoltà, lo stesso non si può dire per la moda, perché è da molto che è scappata a Milano. Un altro punto di forza è il turismo, ma un turismo di massa e non “alto”, che ovviamente è entrato in piena crisi. E anche se tornerà, lascia molte vittime sul campo. Perché città come Firenze hanno fatto l’errore di identificarsi troppo con questo modello, col turismo di massa. Oggi la città non produce più cultura».
Era ed è possibile un’alternativa?
«Certo, basti pensare a quello che Firenze è stata nel Novecento e a quello che ci ha lasciato in eredità. Avevamo grandi case editrici, da Vallecchi, a Le Monnier, alla Nuova Italia. Avevamo un giornale di grande peso a livello nazionale. Avevamo istituti di cultura importantissimi, che abbiamo lasciato che si indebolissero. Solo Palazzo Strozzi rappresenta un’eccezione. Per non parlare del Maggio Musicale, che dagli anni ‘50 ha avviato un lungo declino. Firenze ha perso peso nell’economia della cultura italiana. Eppure ancora ci sarebbero molte risorse: penso alle quaranta Università americane, alcune delle quali importantissime, ma restano corpi estranei rispetto alla città. Penso all’archivio fotografico Scala, che ha enorme importanza a livello mondiale, e quasi nessuno conosce. E penso agli Amici della Musica, di cui sono presidente, la più grande società cameristica d’Europa: il Comune ci aveva trovato una sede, che andava ristrutturata. Ma una volta trovati i soldi, alla fine sono stati dirottati per restaurare la balaustra del Piazzale Michelangelo. Ovvero, ancora una volta, per i turisti. Sono tante le occasioni perse».
Può farci un esempio?
«La grande mostra di Raffaello a Roma. Perché è stata fatta lì? A Roma non hanno che affreschi di Raffaello, la maggior parte delle sue tavole sono a Firenze. Però siamo rimasti tagliati fuori».
Al di là di questi casi simbolo, materialmente come si riportano residenti e negozianti veri nel centro storico?
«Con una politica di incentivi e sgravi fiscali».
Crede che la classe politica fiorentina sia all’altezza di raccogliere sfide così complesse?
«Credo che non si possa volere la botte piena e la moglie ubriaca, bisogna scegliere. Questa è la più grande obiezione che muovo al sindaco Dario Nardella. Certo, non si può fare a meno del turismo che è la nostra principale risorsa, ma o si offre la città al turismo di massa o si sceglie di investire sulla cultura: sono scelte incompatibili. Quel che mi preoccupa è l’assenza di progettualità. E se chi governa deve comunque amministrare, chi è all’opposizione mi preoccupa ancora di più: non ci sono alibi, chi è all’opposizione dovrebbe suggerire un modello di cambiamento. Mi spaventa molto il fatto che manchino totalmente visioni alternative».
A Firenze, una volta finito il lockdown, si è tornati a discutere di infrastrutture. Cosa pensa di questioni come l’aeroporto e la tramvia?
«Credo che un aeroporto efficiente a Firenze sia necessario. Perché è proprio da lì che passa la possibilità di portare in città non solo masse di turisti, ma anche un altro tipo di ospiti. Quanto alla tramvia, basta guardare i pali per capire che è un’opera che è nata vecchia, si poteva pensare a soluzioni diverse: non dico la metropolitana, perché qui scavare in profondità è complicato, ma ad esempio a soluzioni in semi-superficie. E non mi piace l’idea che il tram arrivi in Duomo, ma neppure in via Cavour. Il centro invece dovrebbe essere riempito di bussini».
Firenze è anche attraversata dalla polemica sul futuro stadio. Campi Bisenzio o Campo di Marte?
«In tutto il mondo i nuovi stadi si costruiscono ai margini o fuori dalle città. Il Franchi stesso, quando fu fatto, era in periferia. Credo che la soluzione Mercafir, ma anche la vecchia soluzione Castello dei Della Valle, o quella di Campi Bisenzio, possano andare tutte bene, anche se nell’ultimo caso vanno costruite le infrastrutture. Quel che è certo è fare il nuovo stadio a Campo di Marte sarebbe un errore urbanistico gravissimo. Chiudere viale Paoli e creare un grande centro commerciale, con una viabilità inesistente, sarebbe senza senso. E credo che Rocco Commisso spinga su Campi, anziché sulla Mercafir, per fare pressione su Nardella perché il suo vero obiettivo è Campo di Marte».
Come mai?
«Un centro commerciale in mezzo a una città è molto più redditizio che in una periferia. E devo dire che è inaccettabile sentire Commisso dire che non vuole parlare col soprintendente Andrea Pessina: Pessina è un rappresentante dello Stato, è lo Stato. E sul Franchi ha ragione, è un bene da tutelare. Per questo motivo, ritengo anche di dubbia costituzionalità alcune proposte di legge che permetterebbero di escludere gli stadi dalla tutela: di stadi tutelati in Italia c’è solo il Franchi».
Ma il Franchi resterebbe vuoto. Come potrebbe essere usato?
«Potremmo portarci tutti gli altri sport, la cultura, i concerti. Possibile che Lucca faccia più concerti che a Firenze? Non credo sia impossibile organizzare una grande stagione estiva, visto che qui abbiamo manager capaci come Massimo Gramigni».
A proposito di notti e divertimento, in questi giorni in centro a Firenze è tornata la mala movida, nella sua versione peggiore in termini di confusione e inciviltà.
«In Italia investiamo solo l’1 per cento in istruzione e il problema è tutto lì, è culturale. La movida non è il risultato di un processo lungo cinque minuti, affonda le sue radici negli anni».