Giuseppe Scaraffia
«Molto in alto e molto lontano nel cielo, al di sopra delle nevi sempre più bianche, in uno splendore che l’occhio non può sopportare, invisibile per eccesso di luce, si erge la punta estrema del Monte Analogo». Quest’immensa montagna, invisibile a chi non sa trovarla non è solo un massiccio sconosciuto, ma anche «il legame tra la terra e il cielo». René Daumal, l’alpinista che narra un’ascesa che è soprattutto un’ascesi, sa che, se il Monte non esistesse, «la nostra situazione sarebbe senza speranza». Misticismo e ironia, sogno e realtà, induismo e Tradizione, Jules Verne e Gurdjieff ritmano questo tentativo di allontanarsi dall’«agitata gabbia di scimmie che chiamano vita».
La ricerca di René Daumal era iniziata presto, quando era ancora un dandy liceale che fissava arrogante l’obiettivo, lasciando zampillare dal taschino della giacca un fazzoletto variopinto. I suoi compagni d’avventura, Roger Vailland, Roger Gilbert-Lecomte e Robert Meyrat, erano tre studenti di Reims dediti allo «sregolamento dei sensi» predicato da Rimbaud. L’etere, l’oppio e l’assenzio erano i tappeti volanti di un viaggio alla ricerca di una seconda dimensione al di sopra della quotidianità. Il tetracloruro di carbonio, usato da Daumal per uccidere le farfalle che collezionava, lo portò più volte alle soglie della morte. Ma quello per lui era soltanto un mezzo, come la letteratura, per trovare la chiave suprema. Tra i riti d’iniziazione di quel gruppetto di maledetti rientrava la roulette russa. Una sera toccò a René sottoporsi all’esperimento e si stupì della facilità con cui poteva abbandonare la vita.
Qualsiasi mezzo era valido per scardinare la minacciosa banalità dell’esistenza, per varcare l’ingannevole compattezza della quotidianità e approdare a un’ulteriore dimensione. Il loro mito di riferimento poteva essere solo Alfred Jarry, il profeta dell’assurdo. La loro rivista, Le Grand Jeu, il grande gioco, diventò nel 1928 la voce dei Fratelli simplisti o semplicisti, come si erano battezzati. «Non bisogna cercare un senso in questa parola. Però forse c’è un’analogia con quello stato infantile che cerchiamo».
Malgrado le innegabili somiglianze, dalla scrittura automatica all’atto gratuito, la sete d’assoluto dei Simplisti non poteva convivere con le strategie del surrealismo. Ci furono dei confronti, poi delle incrinature sempre più profonde. Nella Lettera aperta a André Breton sui rapporti tra il Surrealismo e il Grande Gioco, Daumal sancì ironicamente la loro distanza: «Lei si preoccupa di finire più tardi nei manuali di storia letteraria, mentre noi, se aspiriamo a qualche onore, sarebbe a quello di essere catalogati per la posterità nella storia dei cataclismi».
«Esito tra la disperazione e la filosofia», confessava Daumal. In questo indecifrabile labirinto, lo aiutò una donna. Figlia di ebrei russi fuggiti dalla rivoluzione, Vera aveva sedici anni più di lui e una bellezza sommessa. Minuta e testarda, aveva deciso di mettere alla prova il loro legame con un anno di separazione. Pronto a dimenticarsi di mangiare e di dormire quando il lavoro lo assorbiva, Daumal non tollerava la sua assenza: «Dal 25 novembre, ultimo termine, se non sei tornata o non mi hai dato dei motivi seri, mi farò ogni giorno delle incisioni sulla pelle, per perpetuare il ricordo».
A disagio coi familiari, «per il sorriso faticoso» cui si sentiva obbligato, preferiva l’amicizia. Ma proprio per questo era pronto a rinunciarvi, se si degradava. «Avevo smesso di vederlo perché la nostra amicizia potesse restare quello che era stata». Intanto aveva incontrato una persona che gli era sembrata straordinaria, Alexander de Salzmann «ex derviscio, ex benedettino, ex professore di judo, guaritore, decoratore, sdentato, un uomo formidabile». Furono prima lui e poi sua moglie a introdurlo all’insegnamento di un maestro esoterico, Georges Ivanovic Gurdjieff, in cui gli sembrò di avere finalmente trovato la traccia da seguire. Nel 1938 ebbe un breve incontro con la sua nuova guida nell’elegante cornice del Café de la Paix. Ma l’insonnia e una salute fragile, minata dalle esperienze giovanili, rendevano meno facile seguire le prescrizioni salutiste della nuova guida. Inoltre, l’indifferenza alla quotidianità lo faceva vivere sulle soglie dell’indigenza. Ai polmoni intaccati dalla tubercolosi si era aggiunta la sordità. Intanto, tra saggi, poemi e traduzioni di testi indù, iniziava le prime pagine di quello che da diario si sarebbe trasformato nel Monte Analogo. Macilento, il viso scavato, ancora abbronzato dal sole di montagna, parlava rapidamente senza la minima aspirazione all’eloquenza, con gli occhi assorti in uno spettacolo invisibile. Era tempo, sentiva, di «lasciare il mondo delle chiacchiere, delle civetterie metafisiche, dei misteri». Durante la guerra, sempre più indebolito dalla malattia, passava da un rifugio all’altro insieme a Vera, in fuga in quanto ebrea. Ma rifiutava di chiudersi in un sanatorio e, malgrado la povertà, non rinunciava a fare la carità. Morì a trentasei anni come la sua guida, Arthur Rimbaud.