Non c’è alcun’ombra di dubbio circa la reale utilità delle mascherine nella realtà socio-sanitaria nella quale ci ritroviamo. Scherzosamente – seppure in senso amaro – potremmo, rifacendoci ad Heidegger, dire di aver sperimentato una seconda volta cosa significa essere-gettati al mondo, dopo averlo fatto una prima volta semplicemente rendendoci conto di essere: dopo mesi di lockdown, abbiamo trovato una realtà completamente diversa rispetto a quella alla quale eravamo abituati. Purtroppo abbiamo ben poco da scherzare: è destabilizzante per tutti, ed anche chi sembra non essere minimamente colpito dalla nuova situazione sanitaria – che sta divenendo anche una problematica sociale – è, con ogni probabilità, sinceramente spaesato ma, per proteggere quelle poche sicurezze che possiamo ancora portarci assieme dalla vecchia realtà, finge un adattamento genuino.
In questa sede ci stiamo prevalentemente riferendo alla mascherina: schiere di persone che, innanzi ad un bellissimo paesaggio marittimo, o solitariamente in macchina, o semplicemente raminghe nel loro passeggiare, vanno bardate, con a malapena lo stretto spazio necessario per poter utilizzare la vista, ora riconoscibili, ora no. La prudenza eccessiva, avere tanta paura del contagio da divenire paranoici, ci sta orientando verso azioni sconsiderate, poco intelligenti e razionali, figlie di un’esacerbazione della paura che porta il nome di angoscia: condizione non più psicologica, ma più densamente ed implacabilmente esistenziale.
La mascherina è diventata un nuovo arto, una nuova componente anatomica che sembra, però, mal aderire al nostro corpo: è chiaro il rigetto, ma è anche troppo forte la pressione psicologica del terrore del virus, tanto microscopico da essere, alla mente, potenzialmente ubiquitario. Ormai potremmo dire come la mascherina non la si indossi, ma la si usi esattamente come posso usare la mano per afferrare, l’orecchio per ascoltare, gli occhi per guardare, i piedi per camminare.
Quanto di più terribile ci possa essere, però, è che così facendo abbiamo fatto compravendita del nostro volto, dell’effige della nostra persona, per un misero strumento che utilizziamo anche in modo inopportuno ed esagerato: dov’è finita la nostra comunicazione facciale, dove il nostro non-dire, dove le nostre emozioni, solo manifeste mediante il volto?
Nel semplice incontro di un uomo con l’altro si gioca l’essenziale, l’assoluto: nella manifestazione, nell’«epifania» del volto dell’altro scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l’altro. E l’assoluto si gioca nella prossimità, alla portata del mio sguardo, alla portata di un gesto di complicità o di aggressività, di accoglienza o di rifiuto.
Emmanuel Lévinas
Se il volto potesse godere di una tomba, questa ne sarebbe l’epigrafe: la connessione con l’Altro adesso viene a mancare, o quantomeno è irrimediabilmente compromessa; la coscienza del mondo, di un mondo modificabile, in divenire, transeunte, che va quindi metaforicamente coccolato, accudito, è persa.
Con ovvietà, ma è giusto chiarire, stiamo parlando di quelle misure prudenziali che sfociano nell’assolutamente esagerato: abbiamo portato esempi poco su; non stiamo assolutamente aborrendo la mascherina in alcun modo con questa riflessione, vogliamo solamente sottolineare come, usata nel modo in cui stiamo facendo, la pena è la spersonalizzazione individuale e dell’Altro, la mancanza dell’«epifania» del volto altrui (e quindi delle altre sensazioni, emozioni, che semplicemente non trovano spazio nel linguaggio, standogli questo addirittura stretto).
Non vogliamo un ritorno repentino ad una normalità che potrebbe metterci in pericolo, ma perlomeno desideriamo essere ancora riconoscibili, essere un qualcuno e non semplicemente indefinitamente qualcuno (o peggio, qualcosa): senza parlare di “nuova normalità” (che logicamente non significa assolutamente niente), vogliamo un mondo che, seppure più pericoloso di prima, possa permetterci perlomeno di essere-noi, non semplicemente e vanamente essere; improntati alla custodia della vita, ci siamo dimenticati che non si può parlare di “vita” se non è la mia, la tua, la nostra.
Abbiamo risolto l’individualità nella collettività per la salvaguardia della vita comune dimenticandoci di come la vita, per essere tale, debba essere vissuta ricordandoci di essere stati noi: abbiamo astratto ed universalizzato il concetto di vita dimenticando la – a tratti terribile – concretezza e singolarità.