Opere dai musei alle chiese Meglio il buonsenso delle trovate artificiose

 

Se assunta come regola generale l’intenzione abbozzata da Eike Dieter Schmidt, il loquace direttore degli Uffizi, di «restituire» la Pala Rucellai di Duccio alla sua primitiva collocazione in Santa Maria Novella provocherebbe uno sconquasso di incalcolabile portata. Siccome a pronunciarla è stato il presidente del Fondo Edifici di Culto, proprietario di oltre 800 chiese italiane, sarebbe stata opportuna un’avveduta prudenza. E non solo per il conflitto di interessi che si delinea, ma perché la questione si inserisce in problematiche di estrema delicatezza. Non desidero richiamare gli aspetti di ordine giuridico, che possono suscitare o resuscitare controversie a non finire. L’interpretazione che Pietro De Marco ha esposto nell’intervento pubblicato su queste pagine il 4 giugno (Le opere dei musei: va bene restituirle alle chiese, con qualche avvertenza) è assai unilaterale. Riprendo solo taluni temi di ordine culturale: inerenti cioè alla funzione dei musei oggi e al conseguimento ottimale della salvaguardia e dell’intelligibilità delle opere. Che effetti produrrebbe un sistematico rientro dei beni indemaniati a seguito della legislazione del 1866-7 nei loro presunti originari contesti? Per il caso sollevato si dovrebbe almanaccare su congetture fantasiose, anche per la drastica ristrutturazione intervenuta di una sede non più adibita al culto. Tanto per fare qualche esempio – prescindendo dal trattamento speciale assicurato ai beni culturali ecclesiastici – si ammira all’Accademia di Venezia La pala di San Giobbe di Bellini che era appunto a San Giobbe. Sta a Brera una Madonna di Piero della Francesca dipinta per Urbino (San Bernardino). Venendo più vicini a noi, anzi vicinissimi, l’Adorazione di Gentile da Fabriano, ora agli Uffizi, spiccava a Santa Trinita, come la Maestà di Cimabue. Il cui Crocifisso fu riportato al convento di Santa Croce giusto in tempo per essere alluvionato nel 1966: pensare che se ne stava tranquillo al centro della prima sala degli Uffizi, allestita da Gardella Michelucci e Scarpa nel 1956. Se la Pala Rucellai prendesse il volo si mutilerebbe uno dei più fulgidi assetti della museologia italiana. Cesare Brandi non si dette mai pace per la deportazione a Firenze dal Duomo di Siena, voluta da Pietro Leopoldo, dell’Annunciazione (1333) di Simone Martini e Lippo Memmi in cambio di «due telucce» di Luca Giordano. Chiudo parentesi.
L’orientamento auspicato da Schmidt è giustificabile solo sulla base di chiare motivazioni cultuali. Altrimenti si presterebbe a innescare un gioco dell’oca dagli esiti discutibilissimi. È consigliabile ricorrere al buonsenso più che sedurre con trovate artificiose. È vero che l’eccesivo storicismo che ha segnato la prassi italiana si è tradotto in un immobilismo paralizzante, accettabile per templi intoccabili e collezioni dotate di un’organicità documentaria da non infrangere, ma non è utile se si vuol ripensare il modello di museo finora di gran lunga prevalente.
Le due tendenze da combattere – è stato detto – sono la sacralizzazione dei musei e la parallela musealizzazione delle chiese. Spostando qua e là beni preparati per una pievina di campagna o per un’isolata chiesola non si reca un beneficio né alla fruizione né alla conoscenza e neppure ad una sentita devozione. Sappiamo che i musei sono nati pregni di ideologie da propagandare: per pomposi disegni di imperialismo politico o per esibire con orgoglio civico nobili radici identitarie. Ora è il caso di tenere a criterio una sana e pluralistica laicità, che favorisca l’istituzione di spazi attrezzati per scopi didattici e filologica classificazione di testi necessari per capire storie nelle quali s’intrecciano confessioni e stili, ambizioni e gusti. Un’acrimonia anticlericale di stampo giurisdizionalista mi pare del tutto smentita dalle norme vigenti. E anacronistico sarebbe un asfittico monoconfessionalismo che puntasse a privare un museo, percorribile a passo lento, di cose che invitino a comprendere l’intersecarsi di sensibilità e predilezioni, di fedi e di sentimenti. I fattori estetici hanno messo in secondo piano dimensioni che meritano più attenzione. E le trasformazioni che s’intravedono fondamentali per il dopo-pandemia, per un’epoca che dovrà inventare parametri e ritmi meno vorticosi, più calmi e umili, spingono a costruire, o ricostruire, musei specializzati, concretizzando un punto dell’innovativa definizione tanto discussa che l’Italia ha proposto senza fortuna per l’aggiornamento della Convenzione di Faro: il museo «effettua ricerche sulle testimonianze dell’umanità e dei suoi paesaggi culturali, le acquisisce, le conserva e le espone per promuovere la conoscenza, il pensiero critico, la partecipazione e il benessere della comunità». Insomma musei-laboratorio in rete, capaci di svolgere la loro missione con mezzi adeguati ed esaltando confronti, estro produttivo, moderna ricerca. Una Madonna di Giovanni di Paolo parlerà con materna sollecitudine a tutti i visitatori, e sarà amata più che se ne stesse reclusa in una cappella abitata secoli fa quale primo contesto del suo peregrinare. C’è da rallegrarsi per segni che hanno precisato e frenato. L’arcivescovo Betori è stato freddino di fronte alla “provocazione” di Schmidt. Il quale ha subito dichiarato di avere in cantiere una mostra di opere di committenza ecclesiale, custodite nei capienti depositi e ignote ai più. È questa la strada principale da percorrere.

Roberto Barzanti
“Corriere Fiorentino”, 6 giugno 2020, p. 12