«Durante il lockdown, ho avuto nostalgia dei miei amici, degli incontri d’arte, di uscire senza paura e sono preoccupata per le persone che non sono in grado di guadagnare e provvedere a se stesse e alle loro famiglie, per i miei colleghi artisti che in questi tempi insoliti si trovano di fronte ulteriori sfide – afferma Humaira Abid (Rawalpindi, Pakistan 1977, dal 2008 vive e lavora negli Stati Uniti) dalla sua abitazione di Washington dove vive con il marito Adeel e la loro figlia Dua – È un momento difficile per tutti e la quarantena ha cambiato le abitudini della maggior parte delle persone, ma visto che il mio studio è a casa, per me il cambiamento non è stato così radicale. Mi alzo, faccio colazione, controllo le e-mail, poi vado nel mio studio e lavoro fino all’ora di cena. A volte mi raggiunge mia figlia, si siede e fa i compiti mentre lavoro. Dopo cena trascorro del tempo con la famiglia e, una volta che tutti vanno a letto, torno in studio e mi metto nuovamente al lavoro per qualche altra ora».
Una quotidianità, quella dell’artista pakistana a cui la regista Laila Kazmi ha dedicato il documentato Heartwood: The Art of Humaira Abid (2014), scandita dal rigore e dall’impegno. Humaira Abid si è formata al National College of Arts (Nca) di Lahore e, nella sua pratica, combina tecniche «improbabili» come scultura e miniatura per «spingere i limiti di un approccio storico», affrontando da una prospettiva interculturale temi legati alla migrazione e al corpo della donna tra tabù, relazioni familiari, violenza e libertà. «Sto lavorando a un nuovo corpus di opere per la mia prossima personale alla Greg Kucera Gallery di Seattle, Sacred Games in cui tratterò questioni relative alla religione e alla società. Tutte le società devono vedersela con gli estremismi che distorcono la religione, o altre istituzioni sociali, usandole a proprio vantaggio per opprimere le donne e le persone indifese. Come artista, ho la responsabilità di educare la società in cui vivo e di essere una voce. Questo è lo scopo principale del mio lavoro e lo sarà sempre».
«Searching for Home» è il titolo della mostra in corso al Center for Art in Wood di Philadelphia (temporaneamente chiusa per il Covid-19) in cui affronta il concetto di casa, esilio, migrazione. Un lavoro che nasce dalle interviste con donne rifugiate provenienti da diversi continenti ed è legato anche alla sua storia familiare…
Sono cresciuta ascoltando storie di migrazione. I miei genitori sono nati in India e si sono trasferiti in Pakistan nel 1947, al momento della partizione. Anche se allora erano molto giovani, hanno sempre sentito i racconti dei loro genitori che hanno condiviso con me. Inoltre, fino al 2013, il Pakistan ha accolto più rifugiati di qualsiasi altro paese al mondo. Dopo qualche anno che mi ero trasferita negli Stati uniti, ho iniziato a sentire che questa era la mia casa. Ma ogni volta che stavo per tornare in Pakistan, tutti mi chiedevano se invece «stessi tornando a casa». Questa considerazione a cui prima non avevo mai pensato ha avviato un mio dialogo interiore. Probabilmente, per qualcuno casa è il luogo in cui è nato, ma per altri può essere quello a cui sente di appartenere.
Lei si definisce un’artista concettuale il cui lavoro è, però, radicato nella tradizione artigianale. Qual è il rapporto tra questi due aspetti?
Non è facile fare qualcosa di nuovo con tecniche utilizzate da secoli. Attingo alle tradizioni e al patrimonio della sapienza artistica insita nella mia cultura per applicarle a temi contemporanei. L’Asia meridionale, in particolare il Pakistan, ha una ricca tradizione di scultura lignea, impiegata principalmente per la fabbricazione di mobili, e della miniatura per l’illustrazione di libri. La miniatura implica un lavoro scrupoloso con pennelli piccoli quanto un singolo capello. Le miniature sono bidimensionali, precise e altamente rifinite. Scultura e miniatura sembrano tecniche molto diverse, ma non per me. Il lavoro metodico, la precisione e i valori estetici della miniatura hanno contribuito a migliorare l’esecuzione delle mie sculture. Qualche anno fa ero in India per una residenza d’artista quando ho scoperto che la parola istri in hindi significa sia donna che moglie. In Pakistan la usiamo per il ferro da stiro. Mi sono informata sull’origine della parola, qualcuno mi spiegò che forse derivava dal fatto che stirare i vestiti è un lavoro da donna. Ciò ha liberato in me l’idea di utilizzare la dualità del suo significato e, allo stesso tempo, di unire la scultura e la miniatura. Così nel 2007 ho iniziato a scolpire i ferri da stiro, miniando sul lato piatto scene sulla vita delle donne.
C’era già una componente contestataria nella volontà di scegliere la scultura che, all’epoca dei suoi studi artistici, era considerata una disciplina prevalentemente maschile?
Ho frequentato la scuola d’arte contro i desideri della mia famiglia. A quel tempo, l’arte non era considerata una professione rispettabile, più che altro era un hobby e i miei genitori desideravano che diventassi medico. Ma volevo rompere gli stereotipi e aprire le porte alle generazioni future, quindi l’ho presa come una sfida, tanto più che alla scuola d’arte le studentesse venivano scoraggiate nella scelta della scultura, perché considerata troppo difficile per lo sforzo fisico che richiedeva. Ho scelto di specializzarmi in scultura: volevo dare una voce e offrire un punto di vista femminile a questo mezzo dominato dagli uomini.
Dalla vita quotidiana provengono oggetti riconoscibili (indumenti intimi, scarpe, ferri da stiro, forbici, giocattoli – c’è anche Pinocchio – tazze da tè…) che lei intaglia nel legno (mogano o pino) e che, al di là dell’aspetto seduttivo, se osservati con attenzione rivelano storie non dette. Qual è l’equilibrio tra bellezza e ambiguità?
Uso gli oggetti come simboli per trasmettere messaggi. Gli oggetti svolgono un ruolo importante nella vita di tutti i giorni, nei rituali e nelle cerimonie religiose. È come se indossassero delle maschere, proprio come le persone. Ciò che intendo fare è andare sotto la pelle degli oggetti e rendere le emozioni tattili, perché il pubblico possa guardare le opere in modo diverso, esplorandone i vari livelli. Desidero innescare una conversazione perché quando un’opera d’arte stimola un dialogo è l’inizio di un cambiamento, un passo verso la risoluzione. Un’opera d’arte funziona quando c’è equilibrio tra tecnica, concetto ed estetica e la bellezza è uno strumento importante, perché avvicina il pubblico incoraggiandolo a scoprire gli strati di significato.
Tra i tabù che ha sfidato, dedicandogli l’installazione «Breakdown in the Closet» (2011), c’è anche quello dell’aborto spontaneo, considerato una vergogna non solo nelle società patriarcali. Vivere in prima persona quest’esperienza e introiettarla le ha permesso di affrontarla con più partecipazione emotiva?
Ciò che è personale è anche universale. È naturale che come donna mi appassioni a questioni che ci riguardano. Tra il 2008 e il 2010 ho avuto diversi aborti spontanei. Ero frustrata nel rendermi conto che nessuno voleva parlare di questo problema, allora ho sentito il bisogno di aprire il dialogo e di renderlo «normale». Per questo ho creato la serie Red. Molte donne che nel 2011 sono venute alla mia mostra alla ArtXchange gallery di Seattle, vedendo quelle opere hanno iniziato a piangere. Hanno sentito la necessità liberatoria di parlare delle proprie storie di aborti spontanei, dei loro problemi di fertilità. L’arte ha il potere di rompere i tabù, coinvolgendo le persone e inducendole a condividere le loro storie. Quando cresci in una società in cui nulla è tuo, incluso il corpo, la mente, le decisioni o lo stile di vita, hai due possibilità: accettare il tuo destino e vivere di conseguenza, oppure alzarti e fare qualcosa. Se decidi di alzarti il cambiamento deve andare a beneficio dell’intera comunità.