Claudia Durastanti
claudia durastanti
A un certo punto, nell’accidentato confronto tra intellettuali e società pubblica, nella scelta più o meno estroversa di un autore o di un’autrice di vivere la propria militanza, si sono perse alcune abitudini. È diventato sempre più strano immaginare, per esempio, che un intellettuale sia capace di incantare una piazza con un linguaggio efficace senza rinunciare alla luce profonda della letteratura, o che qualcuno sia capace di mettersi davanti a uno schermo senza perdere l’elettricità del discorso poetico. Non che la piazza o la televisione siano un criterio per giudicare una buona scrittura, ma non deve essere sempre vero il contrario: e cioè che l’assalto al presente attraverso la letteratura, la ricerca di un senso, non possano essere offerti a tanti lettori e lettori diversi, senza farli sentire automaticamente ignoranti. E cioè non è sempre vero che la bellezza debba essere intima, privata, e non troppo rivelata per contenere verità. Questa è una concezione sacra di letteratura che Ali Smith, scrittrice scozzese all’apice della sua inventività, rimanda al mittente e sfascia con benevola prepotenza. Sono anni, a partire dal voto su Brexit nel 2016, che Smith si sta immergendo a testa bassa in quella convenzione che definiamo «realtà» senza paura di schizzarsi con il fango della contingenza storica, con la crisi, e lo spettacolo di una stupida vita inglese.
Questo suo viaggio iniziato con Autunno, proseguito con Inverno (entrambi tradotti da Federica Aceto, in vere prove di forza) ora si eleva con il libro più luminoso e piacevole dei tre, dove il concetto di «piacere» sta per un’immersione in una scrittura che sa di essere importante, ma non rinuncia a divertire, o a far scoprire qualcosa. Per esempio, tra le cose che si apprendono in Primavera, il cui titolo avrebbe potuto essere anche Aprile – «Aprile il mese anarchico, il mese finale» –, c’è questa: forse Katherine Mansfield e Rainer Maria Rilke si sono ritrovati nello stesso albergo in Svizzera a lavorare alle loro opere senza mai sfiorarsi o invaghirsi. O forse Rainer Maria Rilke non è morto di leucemia, ma per un’infezione contratta dalla spina di una rosa offerta a una nobildonna egiziana. Ovviamente, il numero di ricerche su Google legate a questi argomenti sarà triplicato da quando Ali Smith ne ha fatto materia romanzesca, ma l’aspetto interessante è questi miti non ci bastano: nel romanzo alcuni produttori cinematografici vogliono trasformare quella tra Mansfield e Rilke in una storia di sesso, nonostante la riluttanza del protagonista Richard che preferisce morire piuttosto che accettare una perversione della forma. Come se l’idea della prossimità tra due geni fosse affascinante ma debole, come se la gentilezza di una compresenza non bastasse, come se un mistero non aspettasse altro che la sua violazione: nel nostro tentativo di spiegare e risolvere tutto, di inseguire colpi di scena e interpretazioni maestre, stiamo liquidando le storie minori, e di conseguenze le vite che non ci paiono all’altezza. Ma come dice la migliore amica di Richard, «Ci sono vari modi per sopravvivere a questi tempi, Doubledick, e uno di questi è la forma che prendono le cose che raccontiamo».
Già, la forma: è impossibile leggere Primavera senza restare incantati dalla naturalezza con cui Ali Smith crea un patchwork di cose mondane e cose poetiche in cui c’è posto per tutti: per i migliori letterati, ma anche per i migranti detenuti in un centro costruito come una prigione le cui pareti sono letteralmente ricoperte di merda. In questo, Ali Smith è un po’ come Katherine Mansfield, una modernista più moderna delle altre. «Un’avventuriera, in tutti i sensi. Dal punto di vista sessuale, estetico, sociale. Facendoli sembrare dei provinciali: la Woolf, la Bell, quelli del gruppo Bloomsbury».
Generosa e sanguigna, è un’autrice che sperimenta senza sfoggio, e sa quando usare la parodia. Parte del romanzo è dedicato infatti a quell’Europa alla ricerca di un sanatorio e all’industria della consunzione: andremo anche noi a farci curare tutti in Svizzera, esistono già dei Thomas Mann degni di questa nuova malinconia dei polmoni? In tempi in cui abbondano allegorie sulla crisi dei migranti, in cui tutto si è fatto apocalisse e Siria e naufragi, Smith rinuncia ai ritratti magniloquenti per riportare la questione anche nel mondo del lavoro, in maniera molto brutale: è la storia di Brittany che lavora in uno di quei centri di detenzione per migranti, e del suo addestramento a ciò che può dirsi inglese e ciò che non lo sarà mai.
Nel suo tentativo di raccontare il presente mentre accade, è sempre più evidente che la forma a cui Ali Smith attinge è quella della caccia al tesoro, del romanzo pieno di indizi e prestiti dal mito e dal folklore. Sarebbe bello, in attesa che questa caccia arrivi alla sua destinazione con la pubblicazione di Estate, che Ali Smith salisse su un palco immaginario a riconciliare l’idea che abbiamo di letteratura e militanza. Lo merita la sua voce, lo meritano le sue idee, e in mezzo a tanto sconforto cloroformizzato generato da facili distopie e facili nichilismi, la lettura dei suoi romanzi è una delle esperienze genuinamente rivoluzionarie che si possono fare oggi: nel suo salmo-parodia contro il capitalismo – «Quello che vogliamo è che vi servano cose. Quello che ci serve è che le vogliate» Ali Smith aiuta il lettore a emanciparsi almeno mentalmente dal suo stato di puro consumatore e spettatore passivo e lo trascina accanto a sé. Non lo anestetizza con l’importanza del grande romanzo, ma gli offre in dono un racconto, e gli dice che è anche sua questa storia, e che la sta scrivendo insieme a lei.