Non ha conosciuto solo un volto o un’identità, anche se è diventata il simbolo della seconda rivoluzione industriale che al suo cittadino forse più noto ha improntato quel nome di «fordismo» capace di evocare ai quattro angoli del mondo l’idea stessa della catena di montaggio e dell’efficienza delle forme di produzione, e sfruttamento, del capitalismo moderno. Ma Detroit non è stata soltanto la città di Henry Ford, capace di attirare nel corso del primo mezzo secolo del Novecento dagli Stati del sud, lungo l’«hillbilly higway», masse di bianchi in fuga dalla miseria e di afroamericani che scappavano anche dal razzismo.
UN CENTRO OPERAIO e sindacale, a maggioranza bianco fino al 1970 ma che oggi, dopo decenni fuga verso i suburbs residenziali delle famiglie bianche, conta su una popolazione all’80% afroamericana. Qui l’identità nera si è espressa nella cultura popolare con la Motown che ha contribuito a plasmare il soul e parte della musica pop dagli anni ’60, come nella rivolta: il riot del 1967 che annunciava la fine della stagione delle lotte per i diritti civili e l’irrompere del black power.
E poi, alla fine della storia, c’è il deserto urbano di oggi con la disoccupazione di massa, migliaia di alloggi abbandonati e interi quartieri in stile vittoriano ridotti a fantasmi di un’era tramontata da tempo, in quella che è stata nel 2013 la prima città degli Stati Uniti a dichiarare bancarotta.
PARTENDO DALLA RADICE industriale della città, emblema di quel sistema produttivo che ha lungamente studiato anche nel nostro Paese, Giuseppe Berta percorre lungo le pagine di Detroit (il Mulino, pp. 230, euro 16) le strade della metropoli del Michigan tracciando una sorta di diario della memoria, dove l’inquietudine del presente si misura con l’eco di un secolo di miti e storia operaia. «I suoi simboli – spiega infatti Berta – rinviano giocoforza a ciò che la città non è più, all’immagine di una potenza industriale trapassata la cui eco trasmette ancora le proprie vibrazioni».
Non a caso è intorno ai murales che Diego Rivera dipinse tra il 1932 e il 1933 sulle pareti del giardino interno dell’Institute of Arts di Detroit per volontà della stessa famiglia Ford che l’autore concentra a lungo la propria attenzione. Lo fa per indagare quel grumo di storia del Novecento che vide paradossalmente emergere in nome della fascinazione per il «progresso» tecnologico e umano incarnato dal «fordismo», l’attenzione reciproca tra l’artista comunista, marito di Frida Kahlo, e i Ford, compreso lo stesso Henry, noto reazionario e convinto antisemita.
LA «CITTÀ DEGLI ESTREMI», come la definisce Berta, si basava del resto su questa contraddizione di fondo, su un modello di sviluppo che all’ombra delle officine alimentò per decenni, ma a caro prezzo, forme di integrazione ma anche di conflitto sociale, tali da contribuire a scrivere alcune delle pagine più drammatiche del sindacalismo americano. Poi, a partire dagli anni Sessanta, la denuncia di un apartheid razziale che celava nuove divisioni sociali avrebbe cominciato ad occupare la scena. E lo scenario urbano di Detroit sarebbe diventato il cuore di un nuovo conflitto, e di forme inedite di emarginazione che continuano a interrogare il presente e il futuro della città.