di Lucrezia Reichlin
Che l’Europa avrebbe scelto di affrontare questa crisi con una molteplicità di strumenti e non con un solo bazooka, gli Eurobond, era chiaro dall’inizio. Lo avevo scritto su queste colonne, ma soprattutto lo aveva spiegato con l’autorevolezza della sua posizione, Paolo Gentiloni. Stupisce l’insistenza italiana sulla posizione «o Eurobond o morte». E rincuora vedere che oggi molti l’hanno corretta. C’è chi sostiene che puntare tutto sugli Eurobond sia stata una calcolata posizione negoziale.
In ambedue i casi si tratta di prestiti che, se fossero sottoscritti, andrebbero a pesare sul nostro bilancio, ma il tasso sarebbe favorevole in quanto garantito da tutti i Paesi. Inoltre il rischio di credito, qualora un Paese non ripagasse il prestito sarebbe comune, quindi mutualizzato. La differenza tra questo strumento e l’Eurobond è che qui sono i Paesi che si indebitano mentre nel caso di un Eurobond emesso da un veicolo speciale, sarebbe il veicolo.
Se il prestito Sure o il prestito Mes fossero a scadenza lunga — diciamo 20-30 anni — e il tasso minore di quello che l’Italia può ottenere dal mercato, come è ragionevole pensare, il trasferimento implicito sarebbe enorme e maggiore di quello ottenibile con un Eurobond. Un lavoro recente ha stimato che nel caso della Grecia l’allungamento dei prestiti Mes a trent’anni ha costituito un trasferimento netto pari al 40% del Pil greco del 2011. Il problema di quei prestiti era la pesante condizionalità, ma in questo caso la condizionalità non c’è. Il punto cruciale da fare valere sul tavolo negoziale del Consiglio europeo del 23 aprile, invece, è la scadenza del prestito Mes. Si intuisce che la scadenza prevista sia di due anni alla fine dei quali, se non si fosse in grado di rimborsare il prestito, non ci sarebbe altra scelta che attingere alla linea di credito tradizionale che richiede condizionalità. Questo è effettivamente problematico e potrebbe essere destabilizzante. Ma nella proposta dell’Eurogruppo questo punto rimane ambiguo e si presume quindi che ci siano spazi di negoziazione. Invece che demonizzare il Mes l’Italia dovrebbe puntare a ottenere una scadenza più lunga e ci sono ragioni per credere che la Germania sarebbe aperta a un compromesso su questo punto.
Un altro terreno di negoziazione è quello della dimensione del programma Sure: 100 miliardi sono pochi e si potrebbe puntare a espanderlo e anche in quel caso — e per le stesse ragioni — aumentare la scadenza del prestito. Una maggiore capacità di leva richiede più garanzie oppure accettare un «rating» più basso, tutte opzioni possibili e presumibilmente negoziabili.
Ma veniamo alla promessa: il fondo comune per la ricostruzione. Per quanto auspicabile, sembra di capire che sarà difficile arrivare a un consenso sulla proposta francese, cioè quella di un veicolo dedicato che può finanziarsi sul mercato con la garanzia di tutti i Paesi membri. È giusto che l’Italia si impegni su questo progetto, ma se, come probabile, un accordo non fosse maturo, dobbiamo rimanere aperti sulla possibilità di utilizzare altri strumenti per il piano di ricostruzione. Si può pensare a espandere il campo di azione della Banca Europea degli investimenti o, come è stato proposto da alcuni economisti, a istituire un fondo europeo in cui sia prevista la partecipazione nell’equity. Le opzioni per finanziarlo sono molteplici e gli Eurobond non sono l’unica via.
Ma non scordiamo che, oltre al problema di come finanziare questi veicoli, c’è quello fondamentale di capire come andranno utilizzate le risorse. Gli obiettivi sono chiari: riaprire l’economia facilitando la riconnessione delle catene di valore aiutando le imprese a operare in sicurezza rispettando i requisiti di distanza fisica tra i lavoratori e utilizzando strumenti di protezione. Ma anche investire nella infrastruttura di salute pubblica e nella ricerca epidemiologica e riconvertire alcuni settori in linea con gli obbiettivi della economia verde. Meno chiaro è quale debba essere il loro governo. L’esperienza dell’uso dei fondi strutturali non è confortante, soprattutto in Italia, e sarebbe tragico trovarci con soldi che non sappiamo spendere.
Su questo abbiamo bisogno di idee innovative. Per esempio, si potrebbe pensare a una struttura indipendente, in parte federale, ma anche con rappresentanza di quelle istituzioni che nei singoli Paesi sono protagoniste della ricostruzione e hanno conoscenza locale, come, per esempio, la Cassa depositi e prestiti.
In altre parole, negoziamo duro sul negoziabile e sparigliamo le carte aprendo una discussione più ampia sugli strumenti per ricostruire, il loro governo e su ciò che ha senso fare insieme per sfruttare le potenzialità del mercato unico.