“Un saluto ai miei fans, grato per il supporto e la fedeltà in tutti questi anni. Questa è una canzone inedita che abbiamo registrato qualche tempo fa, penso possiate trovarla interessante. State al sicuro, rispettate le regole e che Dio sia con voi”. Con queste semplici parole, singolarmente premurose ed empatiche per un artista dalla riservatezza leggendaria, Bob Dylan ha presentato ieri on line i quasi diciassette minuti di Murder Most Foul. Il brano più lungo della sua carriera, nonché il primo scritto da poeta laureato con il Nobel.Una canzone composta presumibilmente all’epoca dell’ultimo disco di materiale dylaniano originale (Tempest, risalente ormai a otto anni fa) o forse addirittura prima. L’incisione, a giudicare dal timbro vocale e dall’accompagnamento, in linea con la figura di crooner sinatriano ritagliatasi da Dylan negli ultimi anni, parrebbe invece più recente. Coerentemente con la mistica dell’indeterminatezza e del mistero che lo contraddistingue, quel “un po’ di tempo addietro” potrebbe voler dire l’altro ieri o tre anni fa. Ma certamente non è casuale la scelta di renderla pubblica proprio ora.

Nel momento in cui il mondo sta affrontando la crisi collettiva peggiore dalla Seconda Guerra Mondiale, sgomento davanti alla propria paura, Bob Dylan torna a far sentire la sua voce con un lungo, dolente, straordinario monologo che assomiglia molto a un requiem. In prima battuta per John Fitzgerald Kennedy, intorno al cui assassinio è incentrato il testo, ma più in generale proprio per quel mondo che forse dovremo lasciarci alle spalle per sempre. Il ’900 per come lo abbiamo conosciuto, con i suoi drammi e le sue illusorie speranze. L’uomo che descrisse con toni biblici la catastrofe fortunatamente mai avveratasi dell’inverno nucleare, oggi che un’altra durissima pioggia sta cadendo su di noi fa sfilare in parata quasi sessant’anni di storia, condensati in una sinossi di incredibile potenza lirica e immaginifica che sembra davvero una Desolation Row per questi giorni tormentati. Partendo dal giorno in cui l’America si confrontò con un altro shock capace di incidere in profondità la psiche del paese e di cambiarne la storia. “Era un giorno cupo a Dallas, novembre del ’63/un giorno che vivrà per sempre nell’infamia”: così inizia il racconto del “delitto più abbietto” (probabile citazione dall’Amleto shakespeariano), srotolato su un tappeto soffuso e malinconico di pianoforte, archi, una impalpabile batteria jazzata e “recitato” con una dizione che da tempo immemorabile non ricordavamo così chiara in Dylan. In una sorta di geniale montaggio alternato, gli ultimi pensieri di JFK mentre viene portato in ospedale (“sto correndo in una Limousine nera con mia moglie/sto correndo nel sedile posteriore verso ciò che c’è dopo la vita/ mi chino a sinistra, poggio il capo sul suo grembo”) lasciano spazio al punto di vista dell’autore, e spesso non è facile distinguere gli uni dall’altro. Ogni strofa, ogni rima racchiudono nella migliore tradizione dylaniana più riferimenti e metafore. Ecco quindi che una citazione da Mary Poppins e il titolo di un celebre pezzo pop inglese rimandano ai nomi di personaggi coinvolti nell’omicidio Kennedy.

Ecco che partendo da quel giorno a Dallas si attraversano gli anni Sessanta e oltre con i Beatles, gli Who, Woodstock e Altamont. Ecco il personaggio del dj Wolfman Jack, il leggendario Lupo Solitario della radio americana al quale JFK (o Dylan?) si rivolge, diventare pretesto per sgranare un rosario di nomi che appartengono alla storia della musica e della cultura pop, e che di quel breve sogno novecentesco nato da una tragedia hanno rappresentato la parte più luminosa. Fonte di conforto, spesso l’unica, in tempi difficili. “Play me a song mr. Wolfman Jack, play it for me in my long Cadillac”. Suonaci Etta James, Nat King Cole, Charlie Parker, Thelonious Monk, Art Pepper i Fleetwood Mac, i Beach Boys…. Ma soprattutto suonaci Bob Dylan, ancora una volta. Non ne abbiamo mai avuto così bisogno.