finestra sul mondo
di Leïla Slimani
Nello studio in Normandia dov’è nato «Ninna nanna», confinata con marito e figli, non ho paura perché tutto sembra irreale, passerà. Ma un pensiero mi assilla
Vedo dalla finestra il mio grande cedro blu, che allarga i suoi rami nell’alba gelida. Vedo il cipresso ingiallito che non finisce più di morire, lui che ha dovuto subire canicole e piogge torrenziali, vittima silenziosa degli sconvolgimenti climatici. Fuori, gli uccelli cantano, indifferenti alla nostra vita. I narcisi sono fioriti, e contro il muro dirimpetto la camelia si è coperta di boccioli. Questa è la vista dal mio studio, nella casa che ho acquistato in Normandia qualche anno fa. A quel tempo cercavo un luogo per scrivere, una casa tranquilla dove consacrarmi ai miei romanzi. Volevo un posto per i miei bambini, per la mia famiglia, un posto per me, malata come sono di nostalgia della mia infanzia. Ripenso alle parole di Marguerite Duras ne La vita materiale: «La casa serve a metterci dentro uomini e bambini, per trattenerli in un luogo fatto per loro, per contenerli nello smarrimento e distrarli dalla loro voglia d’avventura.» Questa è la visione che io associo al lavoro, alla creazione. Questo cedro blu, l’ho guardato mille volte mentre scrivevo Chanson douce (Ninna nanna). Passavo le ore a contemplare, in lontananza, queste colline normanne mentre immaginavo Le pays des autres, la Meknès degli anni Cinquanta. Spesso mi sono ritirata qui per qualche giorno, da sola. Facevo la spesa — doveva bastare per una settimana — e non uscivo più. Passavo la giornata in pigiama, spettinata, a parlare da sola. Dormivo quando capitava, mangiavo nel cuore della notte. Volevo provare una sorta di abbandono, quello stato vicino alla follia così propizio alla scrittura narrativa.
Oggi sono rinchiusa in casa, ma non da sola, e non c’è verso che riesca a scrivere un romanzo. Da due giorni, sono confinata qui con marito e figli. Giù in strada non si vede più passare una macchina. Non c’è più traccia delle comitive di marciatori e persino il gregge di pecore, che normalmente attraversa la collina, è sparito. Ognuno di noi ha firmato una dichiarazione, su un foglio bianco, con nome e indirizzo e il motivo delle nostre uscite. Mi sembra di vivere in una fiaba e di essere, tutti noi, prigionieri di una specie di sortilegio. Una fattucchiera malefica — o forse un mago benevolo, chissà? — ha fermato il mondo. La natura si prende la sua rivincita. La stoltezza che ci trascinava nel suo turbine finalmente è venuta meno. In questo mondo fondato su consumi, produzione, spostamenti e socialità spinta all’estremo, eccoci rassegnati agli arresti domiciliari, costretti a dar prova di pazienza e umiltà.
Il silenzio
La realtà è troppo grande, troppo esagerata, troppo presente. Ci divora dall’interno, e ci si sente un po’ ridicoli con le nostre parole stupide e banali
Mi dico che questa vista così bella, così serena, sulla campagna e sui fiori, sarà il mio unico sguardo sul mondo per almeno un mese intero. Io, che ho passato gli ultimi tre anni a viaggiare, io che mi svegliavo talvolta in una stanza d’albergo senza sapere nemmeno in che paese mi trovavo, ecco che mi vedo costretta a reimparare ad abitare. Ho voluto sempre correre, tutta la mia vita. Sognavo una vita piena zeppa di impegni, una vita intensa, volevo fare tutto, vedere tutto. Passo le mie giornate a compilare elenchi di cose da fare, articoli da scrivere, libri da leggere, film da vedere. Compro biglietti aerei per viaggiare di qui a sei mesi, già sogno del viaggio che farò quando sarò vecchia e i figli saranno andati via di casa. La verità è che ho sempre sonno, eppure non riesco a coricarmi senza rimuginare sulle mie angosce, senza rimproverarmi di non aver fatto abbastanza, di tentennare, di perder tempo.
È già da un’ora che fisso il cedro blu. Non faccio altro. Vorrei imparare ad abbandonarmi alla vita, vorrei trovare in me «un’estate invincibile», come scriveva Camus. In realtà, non ho paura. Non ho paura perché tutto questo mi sembra irreale. È un gioco, o forse un sogno, è una prova alla quale bisogna sottostare e che ben presto finirà. Un regista di Hollywood si è forse impadronito delle nostre vite? Non ho paura, perché so che finirà, che potremo di nuovo uscire e tornare a toccarci. Mi chiedo che cosa sarebbe più insopportabile: che la vita riprenda come prima, o che nulla sia più come prima. Mi assilla un pensiero: chi si approfitterà di questa crisi, chi saprà sfruttare la nostra paura degli altri? Chi sarà il primo che oserà dire: tanto stiamo bene tra di noi, o no? Vedete che adesso chiudono le frontiere? Non l’avevate capito, che a furia di mescolarsi sarebbe finita male? A volte mi dico che basterebbe solo vivere, semplicemente vivere: stendere i panni, ripassare le lezioni con i bambini, leggere ad alta voce, per la centesima volta, la storia dell’orsacchiotto e del palloncino rosso, cucinare qualcosa di buono, restare seduta sull’erba e contemplare gli alberi. Dovremmo ascoltare il silenzio, pensare a quanti non hanno di che vivere per superare questa emergenza, e non a scrivere, perché la realtà è troppo grande, troppo esagerata, troppo presente. Ci divora dall’interno, e davanti ad essa ci si sente tutti un po’ ridicoli con le nostre parole stupide e banali. Malgrado tutto vi scrivo, perché altro non so fare, perché è la sola cosa che mi aiuta a respirare e a sopravvivere, che mi dà il coraggio di amare e mi trattiene dalla follia.
Questo pezzo è stato pubblicato sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Segnale della vicinanza culturale al tempo della distanza politico-sociale, gli articoli della serie «Finestra sul Mondo» vengono pubblicati in altre testate internazionali come Politiken, Presse e Observador (Traduzione di Rita Baldassarre)