di Francesco Bonami
Max Hollein racconta il museo di New York che compie 150 anni
Con una svolta: l’arte non sarà più vista solo con gli occhi dei bianchi
MNEW YORK
entre i musei italiani sono chiusi per l’emergenza virus, ce n’è uno, americano, che sta per compiere un compleanno importante. Il prossimo aprile il Metropolitan Museum di New York avrà 150 anni. Pochi per noi europei, tantissimi per la più prestigiosa istituzione museale degli Stati Uniti, terza più visitata del mondo con sette milioni l’anno, dopo gli otto del museo nazionale cinese di Pechino e i dieci del Louvre di Parigi. Abbiamo incontrato il nuovo direttore Max Hollein, 50 anni, austriaco, figlio del famoso architetto Hans Hollein e pupillo di Thomas Krens, storico direttore del Guggenheim.
La sua nomina non è stata gradita da vari quotidiani internazionali, come il Guardian e il New York Times, che molto prevedibilmente hanno criticato l’ennesimo — il decimo per la precisione — bianco al comando del museo. In realtà, chi conosce Hollein sa che lui può essere l’uomo giusto per guidare questo transatlantico nell’oceano tempestoso della correttezza politica e di una storia dell’arte tutta — se non da riscrivere — da riorganizzare. La coincidenza vuole che Hollein sia nato nel 1969, l’anno in cui un altro pirotecnico direttore, Thomas Hoving, organizzò Harlem on my Mind , una mostra sulla cultura nera di Harlem, dove però furono esclusi proprio gli artisti neri. Si può dire che quella fu l’esposizione che, involontariamente, scatenando proteste, aprì le porte alla correttezza politica e al salutare revisionismo nella storia dell’arte. Oggi Hollein si trova moltiplicata per mille la patata bollente di un museo enciclopedico con una storia scritta principalmente dall’uomo bianco europeo illuminista, ma non sempre troppo illuminato da un punto di vista sociale e etnico. «Il museo è il prodotto della sua architettura sia fisica che mentale — dice — Quando entri hai l’Egitto, i Greci, i Romani etc. etc. Poi trovi l’arte africana… Il nostro impegno sarà tutelare l’esperienza e la qualità artistica delle opere, ma, al tempo stesso, creare attorno a queste nuove letture e punti di vista. La cultura al Met dovrà apparire in tutta la sua fluidità e non più in una linearità che oggi ci appare artificiale».
Insomma, ogni opera d’arte porta con sé diverse verità.
«Esatto. Pochi sanno che la maggior parte delle opere che oggi si trovano nei musei sono state realizzate per la propaganda politica o la religione. Il loro valore estetico era relativo. Il nostro obiettivo sarà quella di fornire allo spettatore gli strumenti per godere delle opere, comprendendone sia il significato che avevano nel passato che quello nel presente».
Parlando di verità, non troppo tempo fa, proprio qui al Met alcune donne chiesero che fosse rimossa un’opera di Balthus perché accusata di pedofilia.
«Sarebbe assurdo pensare di riscrivere la storia dell’arte solo attraverso gli artisti che hanno avuto una vita impeccabile. Il museo ha la responsabilità di fornire il maggior numero di informazioni possibili sulle opere e sugli autori e di lasciare allo spettatore la libertà di giudizio. Ma non può inventarsi una sua censura. Faccio un esempio. Uno dei film che secondo me descrivono gli orrori del fascismo in modo eccezionale è Salò di Pasolini. Si tratta di un’opera che disturba molto e non so se si possa dire che Pasolini abbia vissuto una vita irreprensibile. Tuttavia è un autore e un artista enorme, di cui non è possibile fare a meno per capire la nostra cultura e la nostra società. Dobbiamo quindi far capire al visitatore che la storia ha sempre avuto punti di vista soggettivi e che è sempre stata vista attraverso filtri di natura diversa. Quando riapriremo le gallerie di arti applicate, mostreremo l’eccellenza e la qualità materiale degli oggetti, ma dimostreremo chiaramente come questi oggetti raccontino una storia scritta dai vincitori e non dai perdenti. Lo stesso accadrà per la nostra ala di arte americana attraverso la quale è stata per molto tempo raccontata la storia di un’America principalmente bianca, lasciando fuori i nativi e la loro cultura. Senza scuse, racconteremo attraverso modelli narrativi diversi come la storia sia questa matassa ingarbugliata di letture e di ingiustizie».
In Italia, in questo momento i musei sono chiusi per il coronavirus, ma si stanno inventando una vita parallela sul web. Social media, intelligenza artificiale e realtà aumentata, che ruolo avranno nel nuovo Met?
«Attraverso i social, siamo in grado di capire e seguire l’esperienza di un visitatore durante la sua visita e anche dopo. Usandoli, possiamo disseminare le informazioni sul museo e le sue mostre e diffondere la sua collezione, raggiungendo anche chi non verrà mai al museo».
I nuovi media hanno diminuito l’attenzione del visitatore davanti alle opere fisiche?
«Diminuita no. L’hanno sicuramente cambiata. Abbiamo scoperto che negli ultimi dieci anni ogni spettatore passa al museo una media di un’ora e 34 minuti. Un tempo rimasto praticamente inalterato».
La realtà aumentata cambierà l’esperienza della visita?
«Molto perché potremo mostrare quelli che oggi sono semplici frammenti di opere virtualmente nella loro integrità».
Ci saranno anche visite fatte su misura, vero?
«Sì, perché chi viene al museo è di solito generalmente impreparato.
Se qualcuno va a una partita di basket o di baseball, arriva già con tutte le informazioni necessarie. A una mostra su Rembrandt no.
Sapendo già dagli acquisti dei biglietti online chi verrà, potremo inviare informazioni succinte che permetteranno al pubblico di studiare prima della visita».
Come si combatte l’effetto Monna Lisa, ovvero il successo di una sola opera che cannibalizza tutto il museo?
«Dobbiamo imparare dagli aeroporti. Andiamo per prendere un volo, ma, una volta lì ad aspettare, siamo distratti da tante altre cose da vedere e da comprare. Ecco: bisogna diversificare l’attenzione dello spettatore».
Quale considera la Gioconda del Met?
«Non abbiamo un’icona simile, ma se devo sceglierne una è La chiromante di George de La Tour del 1630».