l’intervista
Franco Vaccari di Rondine: una nuova visione d’impresa
«La sfida del futuro per l’economia di Arezzo è quella di creare una visione nuova di impresa. Noi di Rondine ci stiamo lavorando con l’iniziativa “imprenditori di pace”. Camminando sotto il castello di Leonardo mi capita spesso di pensare al rischio di essere nani sulle scarpe di giganti. Il compito è salire sulle spalle dei giganti e questo slancio ce lo dà la cultura». Franco Vaccari, 67 anni, aretino, fondatore di Rondine, Cittadella della pace, è un visionario. Basti pensare che nel 1997 ha dato vita a Rondine, un piccolo borgo della pace, a 12 chilometri da Arezzo: «Il fine ultimo dell’associazione è formare giovani che tornino nei propri Paesi con una mentalità rovesciata per lavorare sui conflitti ma anche per contribuire allo sviluppo delle società di provenienza».
I riferimenti visionari di Vaccari sono Giorgio La Pira e Brunello Cucinelli: la pace e l’impresa umanistica. Il riferimento a La Pira è chiaro visto l’impegno di Rondine per la pace. Ma Cucinelli?
«Cucinelli è un imprenditore umanista, mette al centro l’uomo ad ogni passaggio della produzione e nella visione, cioè nel senso del produrre. Sì, siamo amici e siamo accomunati da questa passione per la centralità dell’uomo. La differenza di Brunello Cucinelli con l’impresa tradizionale sta proprio qui: produrre cultura e non semplicemente profitto. La sfida è grande perché contraddice chi oppone cultura a profitto. E Arezzo può dare un grande contributo al futuro dell’economia».
In che senso?
«Arezzo è una città molto provinciale e troppo individualista. Manca il senso dell’appartenenza civile comunitaria, è chiusa in se stessa. La sfida è culturale, non investire in cultura è la nostra mancanza. L’investimento in cultura richiede però pazienza perché i frutti arrivano col tempo».
Però è anche un’economia di successo, quella aretina.
«Lo è proprio perché si fonda su due cardini che sono laboriosità e imprenditorialità. È gente che ha costruito grandi aziende: la Lebole, la Unoaerre, il Calzaturiero Soldini, Buitoni, Del Tongo. Una laboriosità che a volte è vera genialità. Gli imprenditori aretini con la valigetta in mano hanno girato il mondo e fatto successo».
Dove hanno sbagliato?
«Nel fatto che poi i soldi li hanno messi sotto il mattone e non hanno saputo investire nella cultura e darsi un ruolo nazionale. Anche per via del venir meno di un’adeguata classe dirigente».
Torniamo al punto: come Arezzo può dare un suo contributo originale all’economia?
«Generando una visione nuova d’impresa. Mettendo appunto insieme la laboriosità e spesso la genialità dei suoi imprenditori con un nuovo sistema di relazioni che rimetta al centro l’umano».
La fabbrica e l’università, avrebbe detto La Pira.
«Proprio così. Le città vanno sapute leggere e interpretare nel profondo. Ho detto proprio al Corriere Fiorentino che ad Arezzo nei secoli molto è venuto dalle foreste casentinesi. I monti custodiscono in modo misterioso le città, ne sono la linfa culturale e spirituale. L’economia aretina non può prescindere dal parco del Casentino e da Camaldoli e La Verna. I monaci sono stati i primi imprenditori delle nostre zone. Vigeva la regola benedettina: ora et labora . Cultura, preghiera e lavoro».
Lei ha anche detto che se perdono l’anima le città sono tutte uguali e «Arezzo è custodita da questi due monti santi ma forse non ne ha piena consapevolezza». A cosa si riferiva?
«A questa scissione appunto tra impresa, cultura, società e natura. Tutti aspetti che si trovano ad Arezzo. Questa è una città di grande cultura. Basti pensare a Piero della Francesca. Ma il rischio è che ognuno di questi segua il suo binario. Faccia anche soldi ma poi li metta sotto il mattone…».
Un altro tema forte è quello del rapporto tra Arezzo città e le sue valli.
«Forse non c’è un’altra provincia in Toscana che sappia creare sinergia tra città capoluogo e provincia come questa. Arezzo ha nel Casentino un parco unico in Italia. Nella Valtiberina un’agricoltura innovativa (Aboca e coltivazione tabacco). In Cortona il suo salotto culturale. Nel Valdarno aretino un’incredibile vivacità culturale, il suo raccordo con Firenze. Con una battuta potrei concludere che Arezzo deve essere provincia con le sue valli, le sue diversità che convergono in una visione unitaria, ma non provinciale».