È l’irruzione delle leggi razziali nel calcio. Dove “vi è una zona in cui è trapiantata, crediamo, una discreta rappresentanza israelita straniera, ed è quella degli allenatori. Non riteniamo di dover fare dei nomi, ma è certo che fra i moltissimi allenatori danubiani non mancano gli israeliti. Ebbene, che costoro – venuti tutti fra noi dopo il 1919 – debbano far le valigie entro sei mesi, non ci rincresce davvero, così finiranno di vendere fumo con quell’arte imbonitoria propria della razza, e lasceranno i posti a tanti ex-giocatori di razza italiana, che sono benissimo in grado di tenerli, e che al confronto con gli stranieri di cui sopra non sono inferiori che sotto una voce: la facciatosta! La bonifica della razza è pertanto destinata ad avere più che salutari conseguenze calcistiche”.
Gli allenatori “danubiani” nel mirino erano una cinquantina, la maggior parte ebrei. Sono loro che hanno alzato la qualità tecnica della Serie A. Ma l’orrore è ormai alle porte. L’articoletto è solerte, tempestivo. Al decreto legge in difesa della razza varato dal Consiglio dei ministri (1-2 settembre) segue lo stesso 7 settembre la firma di Vittorio Emanuele III. È attorno a questo ignobile nodo che si sviluppa il saggio L’allenatore ad Auschwitz (Interlinea ed.) di Cerutti. Scacciato dall’Italia, Weisz si rifugia in Olanda, ma l’invasione nazista lo obbliga a nascondersi. Catturato dalle Ss finisce ad Auschwitz. Muore nel dicembre del 1944. Aveva 48 anni, vittima delle leggi razziali e delle camere a gas. Come la moglie Elena e i figli, Clara di 8 anni e Roberto di 12. Su di lui calò per decenni il sipario dell’amnesia.
Béla Guttmann, classe 1989, pure lui ungherese come Weisz, pure lui ebreo e allenatore, fu più fortunato. Sopravvisse (non il padre, non la sorella, non la famiglia allargata). Come sfuggì al genocidio non lo rivelò mai. Non se la sentiva. Ci ha provato David Bolchoner, autore di The Great Comeback (2010), tradotto finalmente in Italia da Milieu edizioni (Il Grande Ritorno. Dall’Olocausto al trionfo). Bolchover dedica molti capitoli al periodo e ai luoghi da cui proveniva: la vivacissima e creativa società ebraica della Mitteleuropa negli anni che precedettero il suo quasi totale annientamento. Giovanissimo centrocampista, con la Nazionale magiara aveva persino segnato un gol alla Germania. Nel 1922 approda all’Hakoah di Vienna, polisportiva sionista il cui nome significava “forza, potere”. Sulle maglie campeggiava una grande stella di David, segno d’orgoglio e di sfida, in un contesto permeato di odio nei confronti degli ebrei. Vince contro tutto e tutti lo scudetto austriaco del 1925. Béla ne è il carismatico capitano. La squadra viaggia e domina. Umilia i maestri inglesi a casa loro. Piega lo Sparta Praga, il Real Madrid di allora. Ma la diaspora dei migliori causa l’inevitabile declino. La resa dei conti arriva con l’Anschluss. Il club è sciolto. I successi cancellati: 37 membri dell’Hakoah sono inghiottiti dalla Shoah, sette erano calciatori. Béla era già lontano, a New York. Tornerà nell’infausto 1938. Fa sua la Mitropa Cup il 30 luglio del 1939.
Cinque settimane dopo, Hitler invade la Germania. Per qualche tempo, Béla dribbla i rastrellamenti. Non i campi di lavoro forzato. Né la deportazione, all’inizio del 1944. Scappa dal convoglio diretto ad Auschwitz. Torna a Budapest, vive come un topo sino alla fine del 1944. Nel 1949 arriva in Italia per allenare la Triestina. Passa al Padova, il Milan lo ingaggia nel 1953: porta Schiaffino e Cesare Maldini. Siederà anche sulla panchina del Vicenza. Alla fine, saranno 21 i trasferimenti internazionali di Guttmann, ebreo errante del calcio, padre fondatore di un gioco non ancora globalizzato ma di cui aveva anticipato i tempi, a cominciare dalla propria carriera, che lo portò a peregrinare, prima e dopo la guerra, in 14 Paesi e altrettanti campionati. Coi suoi metodi innovatori resuscitava squadre moribonde e le rendeva competitive. Il capolavoro? Le due Coppe dei campioni consecutive (1961 e 1962) vinte dal Benfica, autentica cenerentola del calcio europeo. Pretese più soldi, dopo il secondo trionfo, i dirigenti del Benfica dissero di no. Lui li maledì: “Non vincerete più una Coppa dei Campioni per cent’anni!”. Sono passati 58 anni. L’anatema resiste.