Una città manifesto Voluta da Ferdinando I come porto aperto a tutte le religioni e a ogni commerciofu luogo di partenza per i viaggi verso il nuovo mondo. E mantiene ancora la sua anima multirazziale
Prima di andare a Livorno è bene leggere le Leggi Livornine che Ferdinando I de’ Medici, Granduca di Toscana vero padre della città meno toscana della Toscana, emanò tra 1591 e il 1593, quando Livorno, in costruzione, era assediata dalle paludi. Sono una decina di paginette ma, se vi paiono troppe, date un’occhiata alle prime righe, dove il Granduca scrive: … A tutti voi, mercanti di qualsivoglia nazione, Levantini, Ponentini, Spagnoli, Portoghesi, Greci, Tedeschi, Italiani, Ebrei, Turchi, Mori, Armeni, Persiani ed altri. Saluto. [A tutti voi] concediamo […] libero e amplissimo salvacondotto e libera facoltà e licenza che possiate venire, stare, trafficare passare e abitare con le famiglie, senza partire , tornare e negoziar nella terra di Livorno… Completato il testo, Ferdinando lo spedì per conoscenza a Elisabetta I d’Inghilterra e ad altre corti europee. L’invito di Ferdinando ai mercanti di tutti i Paesi a cui assicurava niente tasse per anni e tolleranza religiosa e giuridica ebbe successo e vennero in molti, soprattutto mercanti ebrei sefarditi in fuga da Spagna e Portogallo, oltre a olandesi, greci, levantini, còrsi e cattolici inglesi, che battezzarono Livorno Leghorn (forse dall’arabo el garn, il corno). Trovarono una città in crescita, a pianta pentagonale, circondata dai Fossi, tutt’oggi navigabili e in comunicazione col mare. Nacque una città cosmopolita e interreligiosa dove attraccavano navi cariche di merci e idee provenienti da tutto il Mediterraneo e dall’Atlantico.
I bombardamenti dell’ultima guerra sbriciolarono il centro, tanti i palazzi e i templi distrutti. Tra questi la sinagoga seicentesca ricostruita dov’era ma non com’era, alle spalle del Duomo; poco distante c’è ancora la chiesa dei Greci Uniti di rito bizantino, e accanto la settecentesca Chiesa delle Nazioni dove si possono vedere, uno vicino all’altro, gli altari di diverse religioni: cattolici romani, olandesi alemanni, còrsi, francesi e portoghesi. Tutti lì a pregare, gomito a gomito. Non solo. A Livorno gli ebrei non vissero mai in un ghetto perché il ghetto non c’è mai stato. E i musulmani catturati in mare e detenuti nel Bagno dei forzati per essere legati al remo sulle galere medicee, potevano pregare Allah nei locali dedicati al culto nel carcere. Oggi del Bagno non rimane traccia, ma nel 1764, prima che fosse smantellato, ospitò accanto una stamperia che pubblicò la prima edizione Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria e nel 1770 stampò la terza edizione dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alambert. Primati di civiltà che dovrebbero essere l’orgoglio di chi è nato qui – come il sottoscritto –, specie in giorni come questi,così confusi. Altro che il mito di nonni pirati col salmastro nelle vene al posto del sangue!
Detto questo occorre chiarire un malinteso sul monumento dei Quattro Mori , simbolo della città, sistemato davanti al porto. Si tratta del monumento a Ferdinando I che, impettito sul piedistallo, guarda il Mare Nostrum, da lui (quasi) liberato da navi turche e barbaresche. La flotta di Ferdinando li sconfisse più volte, e suo figlio Cosimo II fece realizzare in bronzo da Pietro Tacca quei quattro schiavi nerboruti da incatenare sotto la statua del padre, scolpita nel marmo da Giovanni Bandini. Non in quanto mori, ma come nemici catturati e fatti schiavi (come sempre hanno fatto i vincitori coi vinti). Quindi non un monumento al razzismo, come pensa chi non conosce Livorno.
A pochi passi c’è la Fortezza Vecchia, con tre poderosi bastioni e la torre rotonda, detta il Mastio di Matilde . Da qui partirono Amerigo Vespucci e Giovanni da Verrazzano per il Nuovo Mondo, salparono le dodici galee con le insegne dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Spirito per la vittoriosa battaglia di Lepanto contro gli Ottomani. E salparono, in segretezza, anche due navi al comando dell’ex corsaro inglese Robert Thornton che, nel 1608, Ferdinando I inviò nella Guyana, sul Rio delle Amazzoni e alla foce dell’Orinoco, alla ricerca di un posto per una colonia granducale. Le navi tornarono dopo quasi un anno, ma il Granduca era morto e il sogno di una Nova Fiorenza alla foce delle Amazzoni svanì. Percorrendo in barca il Fosso Reale si passa davanti al punto in cui furono ritrovate le false teste di Modigliani, poi si entra sotto la grande volta (220 metri) che sostiene Piazza della Repubblica dove Ferdinando III e Leopoldo II, scolpiti in marmo, recitano il gran finale degli Asburgo-Lorena in Toscana. Su un angolo della piazza, Giovanni Fattori di bronzo, un po’ curvo e con le mani dietro la schiena come un pensionato stanco, si guarda attorno. Sembra aspetti l’autobus per andare a vedere i suoi capolavori esposti a Villa Mimbelli, insieme a quelli dei suoi amici Macchiaioli.
Costeggiando il fosso lungo il bastione della Fortezza Nuova s’arriva al quartiere della Venezia disegnato dai canali e riscoperto anche dai turisti più distratti grazie al film Ovosodo di Paolo Virzì, che ha sdoganato Livorno e il suo vernacolo, compresa l’espressione «boia de’», che non vuol dir nulla ma va bene per tutte le occasioni. Pochi raggiungono ciò che resta del teatro San Marco, nell’omonima via, dove sventola la bandiera rossa con falce e martello, e una targa ricorda che lì, il 21 gennaio 1921, dei fuoriusciti dal Partito Socialista, tra cui Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti fondarono il Partito Comunista Italiano. Qualcuno lascia ancora un garofano rosso.
La Venezia livornese fa immaginare la città prima delle bombe e quella più antica dei Medici quando la via Ferdinanda (oggi Via Grande) aveva i palazzi decorati da quel poco di buono di Agostino Tassi, lo stupratore di Artemisia Gentileschi. E la città era davvero bella, almeno agli occhi del granduca Ferdinando, che scriveva alla moglie a Firenze: Ho visto questa sera fare al calcio su la piazza del porto, et su quella del Duomo, che in Fiorenza non si fa tanto […] Et faranno un calcio a mezza livrea che non lo faranno così bello a Fiorenza et il giorno di detto calcio sarà domenica otto . Di certo Ferdinando andò a vedere la partita e oggi andrebbe allo stadio Armando Picchi col bandierone amaranto. Il lungomare, che dal vecchio cantiere navale Orlando arriva ad Antignano, regala uno spettacolo. Il sipario si apre alla Terrazza Pietro Mascagni (livornese anche lui), una grande scacchiera a pianta arabescata davanti al mare, inondata di luce e di Libeccio. Scenario metafisico così perfetto che Giorgio De Chirico non avrebbe avuto difficoltà ad autenticarlo come opera sua. Verso sud s’arriva a San Jacopo, dove l’Accademia Navale mette in mostra un brigantino a tre alberi che serve a cadetti e marinai a far pratica prima di imbarcarsi sul veliero Amerigo Vespucci, la nave più bella del mondo, qualche volta nel porto. Ancora pochi metri e c’è la piccola Rotonda tutta pini e lecci piegati dal vento, che ha fatto la felicità dei pittori livornesi da cavalletto. Dopo sconcertanti dinieghi è stata intitolata a Carlo Azeglio Ciampi, gran livornese, e per questo è diventata più bella di prima.
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