Due filosofi, Maurizio Ferraris e Massimo Cacciari, a confronto su una parola rilanciata, a sorpresa, dalla politica: “Va ripensato”
di Massimo Cacciari e Maurizio Ferraris
La parola umanesimo è tornata di grande attualità. Anche sul fronte politico: vi si sono appellati, recentemente, sia il premier Giuseppe Conte che Matteo Renzi. E, su un piano più ampio, papa Francesco. Qui due filosofi, Massimo Cacciari e Maurizio Ferraris, dialogano a 360 gradi su questo concetto cruciale.
Maurizio Ferraris: Si parla molto di umanesimo, come se fosse una questione pacifica a cui tornare per rilassarsi. Quando invece, ed è la tesi di partenza del tuo libro ( La mente inquieta , Einaudi), l’umanesimo è tutt’altro che un periodo pacificato, dal punto di vista storico, e di risolto, dal punto di vista teorico. Se è così l’umanesimo non è dietro di noi, come un momento storico, ma è davanti a noi, come un obiettivo teorico che è ancora lontano dall’essere realizzato.
Mettersi in questa prospettiva significa abbracciare una filosofia della storia per la quale l’umanità va verso il meglio. Ma è proprio di queste filosofie che siamo a corto. Dopo Hegel, è difficile trovare una filosofia positiva della storia, e anzi la coscienza comune inclina al catastrofismo: l’umanità va verso il peggio, scienza e tecnica sono false amiche del genere umano, eccetera. L’emergenza ambientale, il malessere sociale, la scomparsa delle comunità tradizionali non sono il bel risultato della crescita tecnologica che ha devastato l’ambiente, distrutto posti di lavoro, e sostituto la società con i social network?
Se questo catastrofismo fosse nel giusto, l’umanità avrebbe buttato le migliaia di anni di storia di cui conserva memoria. Ma, a onore dell’umano, va detto che non è così. Siamo molto più numerosi oggi di un tempo, molti di noi sono più longevi, i nuovi lavori sono meno noiosi e inumani dei vecchi, che col tempo spariranno e ci sono buone ragioni per pensare che in tempi non troppo lunghi sarà così in tutto il mondo: è già moltissimo, per il legno storto dell’umanità, ed è di qui che parte ogni umanesimo degno del nome.
Massimo Cacciari: L’umanesimo storico è caratterizzato da un senso positivo del termine novitas , tale da non nascondere tuttavia in alcun modo la criticità e drammaticità del presente. Né l’istanza di oltrepassamento è declinata in contrapposizione al valore del passato – anzi, all’opposto: la scoperta invera l’intero itinerario che ha condotto ad essa. La filologia dell’umanesimo assume qui, come ho spiegato nel mio libro, tutta la sua pregnanza filosofica: nessuna venerazione o idolatria del “classico”, ma coscienza della propria origine.
Tutto ciò, però, a differenza che nelle ideologie positivistico- progressiste, avviene senza alcuna enfasi; niente «magnifiche sorti e progressive». Contro queste ultime reagiscono, sostanzialmente, le profezie catastrofiche e le filosofie della storia sul tramonto dell’Occidente in voga un secolo fa, e la cui eco di quando in quando si riaccende.
Si tratta di due facce della stessa medaglia. L’umanesimo critico è altra cosa: è pittura della realtà effettuale, per quanto il nostro occhio possa coglierla (e mai lo potrà integralmente) – è decisione che siamo chiamati ad assumere di fronte all’immagine. La coscienza che nessuna esatta rappresentazione dei fatti esaurisce il problema di ciò che dobbiamo fare: tale drammatica consapevolezza costituisce lo sfondo di tutte le ricerche e le creazioni dell’umanesimo.
MF: «Conosci te stesso soltanto nell’azione», scriveva Goethe, e ne sanno qualcosa le piattaforme che ci profilano proprio registrando il nostro comportamento sul web. E la prima cosa che conosciamo è che, per agire umanamente, abbiamo bisogno di tecnica. La natura, di per sé, ci suggerisce solo di nutrirci, riprodurci e fuggire i predatori, e ci consegna a una vita solitaria, povera, pericolosa, brutale, e breve. Unico animale nella cui essenza rientra il supplemento tecnico, l’umano non viene dunque alienato dalla propria essenza a causa delle malefatte della tecnica, ma viene rivelato dalla tecnica: è la tecnica a dirci ciò che noi siamo, ciò che vogliamo. A questo proposito, vale la pena di osservare una circostanza. Nella società borghese, scrive Marx, gli esseri umani, trasformati in protesi delle macchine, sono forzati a ripetere lo stesso gesto privo di significato dieci ore al giorno, sei o magari sette giorni alla settimana, e per tutta la vita. Ma nella società comunista si potrà andare a pesca alla mattina, scrivere saggi critici il pomeriggio, accudire il bestiame alla sera. Non è forse questa la vita che caratterizza la parte del mondo in cui abbiamo la fortuna di vivere, tra viaggi low cost, vite sui social e mobilità lavorativa?
MC: Penso che i discorsi apocalittici sulla tecnica facciano parte di quelle profezie cui ho prima accennato. Anche qui occorre considerare che esse spesso si presentano come controcanti a ingenui culti della “esattezza”, come se sempre e in tutti i casi quella ottenibile nelle procedure matematiche e fisiche potesse valere come modello. Occorre altresì distinguere, seguendo una traccia già hegeliana e poi marxiana, tra “alienazione” ed “estraniazione”.
È vero che il nostro esserci si manifesta tecnicamente; lo sapevano benissimo i Greci: si tratta di quella entechnos sophia (sapere tecnico) di cui Prometeo ci ha fatto dono e senza la quale gli altri animali e la natura matrigna ci avrebbero divorato da tempo. Ma ben diverso è il fatto che in questo stesso esprimerci tecnicamente il soggetto finisce per non ritrovare se stesso nei suoi prodotti, che si configurano come estranei al soggetto che li ha progettati, e tali anzi da soggiogarlo a sé.
MF: Ci lamentiamo di essere comandati dalla tecnica, ma senza umani la tecnica non ha scopo, perché non ha vita. Se per ipotesi accanto a noi venisse seppellito, in luogo asciutto e sicuro, un computer spento, l’anno dopo lo si potrebbe riaccendere, mentre non c’è modo di rianimare i defunti, per loro l’alternativa on/off è risolta a divinis per l’off. È questa irreversibilità che ci rende, tra le altre cose, felici o depressi, interessati o annoiati, assetati di potere o desiderosi di sapere. La fine è nostra, non delle macchine, e così pure il fine, anche se, come giustamente ricordi, possiamo avere l’impressione (ma secondo me il difetto è tutto nostro) di non trovare il filo, e di essere estraniati a noi stessi.
Non sopravvalutiamoci, ma nemmeno sottovalutiamoci. Le macchine ci porteranno via i lavori faticosi ed alienanti, ma sta a noi inventare nuovi lavori che ne prendano il posto; farci pagare per il valore che produciamo sul web; e riconoscere che se anche siamo sostituibili come produttori, siamo indispensabili come consumatori. Possiamo costruire una macchina per fare il sushi, e un’altra per distribuirlo, ma non ha senso una macchina consumatrice di sushi, e se le prime due esistono e hanno un senso è perché la terza non ne ha.
MC: Il formidabile processo per cui l’innovazione tecnico- scientifica produce un assetto dei fattori produttivi in ogni settore, a crescente e altissima riduzione del lavoro necessario, è un processo auspicabilissimo, certo. Ma è impossibile considerarlo avulso dal contesto in cui ha luogo. La liberazione dal lavoro necessario era vista, dal romanticismo ai grandi dell’idealismo, fino a Marx e oltre, come l’instaurazione di un “lavoro dello spirito” su scala universale. E non come il regno del tempo libero! Non ha senso parlare di liberazione dal lavoro comandato o dipendente se non nella prospettiva di un “lavoro dello spirito”.
La disoccupazione è l’opposto di questo, anche quando venisse retribuita dieci volte il più pagato dei lavori dipendenti. Questo è il dramma attuale: si libera lavoro lasciando l’energia del soggetto senza impiego. La società non è organizzata (e neppure pensata!) per impiegare l’energia che il lavoro liberato possiede. L’etica dominante rimane ancora quella del lavoro comandato, della pena del lavoro. Qui vi è una rivoluzione culturale da compiere. E proprio nel segno di un umanesimo completamente ripensato.