Nascita e merito
di Ernesto Galli della Loggia
Per spiegare la vittoria elettorale dei 5 Stelle e il sentimento genericamente «populista» che ancora circola in notevole misura nel Paese si leggono due tipi di analisi, perlopiù orientate in una o l’altra di queste due direzioni (o in entrambe, vista l’ampia base comune esistente tra di esse). La prima si appunta sull’imborghesimento, chiamiamolo così, e sul conseguente distacco politico della Sinistra dalla sua base tradizionale. Nel secondo caso, invece, ci si sofferma sul sentimento di ostilità e di rivolta da parte di vasti strati dell’elettorato contro le élite a causa dell’identificazione di queste con la globalizzazione, il multiculturalismo, l’immigrazione, il politicamente corretto e così via dicendo. A fare da collante tra le due spiegazioni si sottolinea come sintomo classico del populismo la diffusione di un forte sentimento di ostilità verso le élite. C’è senz’altro molto di vero in entrambe le spiegazioni. Ma a tutte e due sfugge un elemento di non poco conto: la specificità delle élite italiane.
Che in generale la democrazia — cioè il regime del governo popolare — e le élite in quanto tali siano due cose in naturale rotta di collisione lo scoprì per la prima volta la democrazia ateniese quando alla fine del VI secolo a.C. fu indotta proprio per questo ad adottare la legge sull’ostracismo: al fine , come ci dice Aristotele, di cacciare dalla città «tutti coloro che parevano innalzarsi al di sopra degli altri».
È anche vero però che su questo antagonismo diciamo così consustanziale tra élite e democrazia la storia ha poi fatto valere le proprie ragioni, stabilendo che le moderne società complesse senza élite non possono funzionare. Neppure le democrazie. Ma in questo caso a una condizione: che le élite siano élite non del privilegio o della nascita bensì del merito. Cioè che si arrivi a farne parte provenendo da qualunque estrazione sociale e solo perché si possiedono doti e competenze obiettivamente accertate. In una società democratica, insomma, anche le élite per essere legittimate devono avere un carattere democratico.
In larga misura non è questo il caso dell’Italia, però: ed è questo il punto cruciale. Negli ultimi due tre decenni infatti — complici tre fattori principali: il ristagno dell’economia, la crescita dello svantaggio del Mezzogiorno, e la crisi del nostro sistema scolastico e universitario — le élite italiane non hanno conosciuto alcun ricambio significativo, nulla di paragonabile a quanto accadde ad esempio dagli anni 50 agli anni 80. Esse hanno assunto un carattere sempre più odiosamente ereditario. Il principale titolo d’accesso è diventato essere figlio di: nelle università, nei vertici delle professioni, nel giornalismo, nell’alta burocrazia, nella magistratura, nella diplomazia, perfino nel mondo dell’editoria, del cinema e dello spettacolo, la trasmissione o l’acquisizione del ruolo socio-lavorativo per via ereditario-familiare (naturalmente con gli opportuni scambi tra un settore e un altro) è diventato da tempo la regola. Non sempre il merito è assente, com’è ovvio, ma il fatto è che sempre di più la possibilità di affermarlo dipende in gran parte dalle proprie condizioni familiari di partenza. Le quali in troppi casi costituiscono il solo titolo preferenziale.
Accade così che oltre agli altri fattori sopra ricordati, l’antica idiosincrasia nazionale per la competizione e per la trasparenza, unita all’altrettanto antica vocazione a privilegiare nell’ambito sociale le relazioni sulle competenze, stiano ormai interrompendo quasi del tutto quel prezioso canale di comunicazione tra gli strati popolari e piccolo borghesi da un lato e dall’altro i piani alti della società, che in tutta la nostra vicenda unitaria, in modo particolarissimo nel primo trentennio repubblicano, ha consentito agli elementi più capaci e intelligenti di tali strati di accrescere la vitalità, le attitudini innovative, la tenacia delle élite della Penisola. Cosicché il Paese può contare sempre meno su quella risorsa tanto spesso presente nella nostra storia, rappresentata dalla brillantezza talora geniale dell’individualità italiana.
Dove maggiormente si respira il tanfo del chiuso è in quel settore dell’élite costituito dall’insieme dei vertici dei gabinetti ministeriali e degli uffici legislativi, dal Consiglio di Stato, dai consigli d’amministrazione dei più vari enti pubblici, agenzie e «Autorità», dalle alte burocrazie addette agli organi costituzionali dello Stato. Sono gli ambiti per l’accesso ai quali molto o tutto dipende assai spesso più che dall’affiliazione politica in senso stretto (che tra l’altro può mutare con la massima disinvoltura), dalla capacità di equilibrismo e di vantaggioso posizionamento tra i diversi clan, dai padrinaggi, dalle consorterie o dalle filiere di cui si è parte o da cui si è sponsorizzati, dall’essere stati allievi di, nello studio di, dall’aver lavorato nella fondazione di.
Da tutto questo deriva la natura sostanzialmente chiusa, iperomogenea e autoreferenziale delle élite italiane, con i suoi tre caratteri tipici: l’età perlopiù avanzata (trovare un quarantenne in una posizione di vertice è da noi cosa rarissima), l’assai scarsa presenza di donne (si osservino le foto delle occasioni ufficiali: una marea di tetre grisaglie maschili); e infine la basica formazione o provenienza ideologica di centrosinistra di quasi tutti (caratterizzata da un perbenismo culturale di irritante quanto superficiale assennatezza sempre: si direbbe un requisito d’ammissione indispensabile). Alla fine quindi come effetti ultimi: conformismo, carrierismo, ostilità a ogni cambiamento, riluttanza a prendere decisioni importanti e/o impopolari. E naturalmente la crisi pervadente nella gestione del Paese a tutti i livelli e in tutti gli ambiti.
Ma se quanto detto fin qui è vero bisogna allora concludere che l’élite italiana più che altro assomiglia a un’oligarchia. È di fatto una vera e propria oligarchia. Il che forse aiuta a spiegare di più e meglio il vasto sentimento di avversione che essa suscita.