È un caso? Non credo. È piuttosto una conseguenza – avanzo questa ipotesi – dell’assenza specialmente a sinistra, nel corso dell’esperienza storica repubblicana, di un partito espressione autentica degli strati popolari, che poi qui da noi sono stati sempre quanto mai contigui e intrecciati a una frastagliata e vasta piccola borghesia. Espressione non solo e non tanto delle rivendicazioni materiali di questi strati sociali ma soprattutto di un humus culturale, di una mentalità, se vogliamo pure di certi pregiudizi, di un linguaggio, di un semplice senso delle cose, che potessero dirsi davvero di tono popolare. Popolare e perciò nazionale. Ci è mancato insomma quel tipo di partito che altrove nell’Europa occidentale è stato e continua ad essere per molti aspetti incarnato, pur tra non poche difficoltà, dai partiti della socialdemocrazia classica in stretta unione con le centrali sindacali.
In Italia, invece, come si sa, al posto di un tale
partito c’è stato il Partito comunista. Ora il Partito comunista non è mai stato e non ha mai voluto essere
un partito popolare tipo il Partito laburista o la Spd tedesca.
Partiti cioè nati e in certa misura rimasti in prevalenza culturalmente e antropologicamente popolari e nazionali (spesso guidati non a caso anche da leader usciti dagli strati popolari). Il Partito comunista è sempre stato una cosa diversa. Esso nacque come partito di avanguardie rivoluzionarie perlopiù intellettuali, le quali verso il popolo come tale e verso il suo universo nutrivano una notevole diffidenza. Nei confronti della stessa classe operaia quelle avanguardie si ponevano in un ruolo superiore di guida, autoassegnandosi il compito di correggere in senso rivoluzionario la spontanea, presunta tendenza popolare alle rivendicazioni, definite sprezzantemente «corporative» (leggi più alti salari e migliori condizioni di vita).
Certo, il Pci di Togliatti è poi stato un’altra cosa. Per decenni la sua storia è stata anche una storia, e come!, di rivendicazioni «corporative». Ma fino all’ultimo, diciamo fino a Berlinguer , c’è stata sempre nei dirigenti e nei quadri del Pci, l’idea che in realtà quelle rivendicazioni dovessero servire a un fine storico ben più importante: al «superamento del capitalismo», alla trasformazione della società, come minimo ad un grande incontro epocale con «i cattolici». Proprio perché funzionali a un simile obiettivo politico trascendente, le rivendicazioni «corporative» potevano/dovevano essere, diciamo così, gestite «politicamente»: cioè accentuate o smorzate a seconda delle circostanze in vista del fine generale. E anche il «nazional-popolare» predicato dal Pci è stato in grandissima parte solo una facciata per nascondere l’antioccidentalismo filosovietico.
Le rivendicazioni «corporative», poi, furono sempre gestite da una leadership per mezzo secolo rappresentata in grande maggioranza da intellettuali (nella direzione del Pci le personalità di origine operaia o popolare sono state sempre rarissime), con i gusti, le frequentazioni, gli abiti di vita, tipici degli intellettuali (causa non ultima, peraltro, dell’influenza esercitata da quel partito sulla cultura italiana). In Italia perfino la Cgil è stata affidata per anni a un raffinato intellettuale come Bruno Trentin, i cui diari testimoniano il vero e proprio disgusto che gli destavano le pratiche quotidiane e le vicende minute della litigiosa vita sindacale.
L’avversione profonda del Partito comunista verso ogni elemento genuinamente popolaresco, verso le inevitabili incoerenze, umoralità generose, velleità e spontaneismi, spesso propri di tale elemento si è espresso in una sua caratteristica storica precisa: nella diffidenza venata di disprezzo che il Pci ha sempre nutrito verso la tradizione del socialismo italiano, considerata il riassunto delle cose negative appena dette. Diffidenza presente fin dalle origini nel dna comunista e che non è venuta mai meno. Fino alla logica conseguenza che, quando dopo l’89 il nome «comunista» è divenuto impresentabile, il Pci ha preferito cambiarlo chiamandosi «di sinistra» e poi «democratico», ma dio ne scampi, giammai socialista o socialdemocratico.
A ben vedere, poi, neppure la Democrazia cristiana – che pure traeva origine da un’esperienza che non aveva esitato a definirsi «popolare» (quella del Partito fondato da don Sturzo) – ha rappresentato un’esperienza in cui l’autentico elemento popolare italiano abbia potuto davvero riconoscersi antropologicamente e culturalmente, non bastando certo a questo scopo la comune fede cattolica. Non da ultimo, infine, perché anche in questo caso come nel caso del Pci la base non ha mai avuto di fatto molta voce in capitolo nella scelta né dei vertici né della piattaforma politica del partito.
Dunque nel corso della prima Repubblica l’elemento popolare-piccolo borghese è stato in realtà più che altro l’oggetto di un vasto disciplinamento socio-ideologico ad opera dei due partiti maggiori. Di fatto esso non ha maturato un’educazione politica fondata in qualche misura sulla sua identità, non è stato il centro motore in prima persona di un’esperienza politica. Molto probabilmente non poteva essere che così a causa di motivi storici legati all’arretratezza del Paese, ma il fatto che le cose siano andate così ha avuto l’effetto che quando i maestri si sono allontanati dall’aula, allora la classe ha cominciato a fare per conto proprio, con una buona dose d’improntitudine e d’improvvisazione. E di aggressività, proprio come succede alle scolaresche lasciate a se stesse. Ha cominciato a guardare con simpatia a leader politici che si muovevano e parlavano come lei, che sbagliavano i congiuntivi e indossavano la felpa al pari di lei, che ostentavano di ragionare e mostravano di reagire come lei. Che non si vergognavano – anzi! – di essere e soprattutto di apparire «popolo» e piccola borghesia come lei.
Fuor di metafora, scomparsi il Partito comunista e la Democrazia cristiana ed evaporatasi in pochi anni la loro lezione, si è aperto nel Paese un gigantesco vuoto di direzione politico-culturale. Nel quale il «popolo piccolo borghese» (ormai è un tutt’uno) ha avuto modo in certo di autonomizzarsi e di prendersi quel ruolo di protagonismo che l’antica costellazione del partitismo italiano, specie quello di sinistra, gli aveva sostanzialmente negato e al quale non si è mai curato di prepararlo affidandosi al più alla cooptazione dall’alto.
I «barbari» della cui invasione qualcuno oggi parla non sono affatto tali, dunque. In realtà essi sono stati qui con noi da sempre. Erano il pubblico dei «nostri» comizi, gli iscritti dei «nostri» bei partiti, quasi sempre anche i «nostri» elettori. Solo che abbiamo dimenticato di mandarli a delle buone scuole, di impartirgli lezioni di buona politica, di ascoltare ciò che avevano da dire, di prepararli alla vita. E così è finita che appena ci siamo distratti loro hanno deciso di fare da soli.
Corriere della Sera – Ernesto Galli della Loggia – 08/10/2018 pg. 1 ed. Nazionale. https://www.corriere.it/