Il racconto per immagini e parole del fotoreporter Massimo Sestini
Lo squillo nella notte: «Brucia Calci». Ho pensato alla Moby e sono partito
A piedi percorro il perimetro della Certosa. E vedo delle torce nei campi. Incontro una persona, vive in una delle casette più vicine, e mi indica un altro signore, uno di quelli con la torcia, è un custode. È lì da 24 anni, ha paura di perdere il «suo» monastero. Con la torcia è come se tenesse a bada l’incendio. Non stacca mai gli occhi dalle fiamme che si avvicinano. Lo supplico di venire ad aprire il portone di ingresso per farmi entrare. Mi accompagna, è molto gentile. Di colpo siamo nel cortile principale dell’ex monastero. Da dentro la Certosa sembra ancora più minacciata. Il rosso del fuoco è indefinibile. Tutto, dietro agli alti muri di cinta sembra privo di distanza. Chissà quanto si stanno avvicinando le fiamme. Chiedo al custode di spegnere la luce sulla facciata principale. Di colpo il cielo diventa tutto arancione e rosso. È come se fossimo circondati. Il vento tira sempre più forte, il fuoco avanza inesorabile dalla montagna.
Giro in lungo e in largo la Certosa, che oggi è anche un museo di storia naturale, vado dietro dove ci sono le celle, nel chiostro con la fontana e i cipressi nerissimi. Il nero e il rosso. Tutto sembra indefinito. La mia reflex vede quello che a occhio nudo non riesco a percepire: la tragicità di una battaglia immane. Il fronte dell’incendio è talmente vasto da non vederne quasi la fine. E poi c’è il fumo che entra nei polmoni, negli occhi. Penetra nei vestiti. Il silenzio è interrotto solo dal crepitio delle fiamme e dai ruggiti del grecale. E dallo squillare del telefonino del custode. Qualcuno gli sta dicendo che si sta incendiando tutto l’oliveto all’ingresso della Certosa. Le fiamme sono arrivate anche qui. Realizzo in quel momento di aver lasciato la mia auto proprio su quel vialetto, accanto ai vecchi ulivi. Corro, davanti a me un muro di fumo impenetrabile. Mi arrotolo la giacca sulla testa, come un turbante, per proteggere occhi e vie respiratorie. Sono in apnea, proprio come 27 anni fa a Livorno. La mia auto è a qualche decina di centimetri dalle fiamme alte tre metri. Penso: o la va o la spacca. E decido di tuffarmi, metterla in moto e innestare una folle retromarcia. Ma non posso mollare la Certosa. Parcheggio in un posto più sicuro. Rientro: davanti all’ingresso ci sono i volontari antincendio della Regione che spengono le fiamme che stavano divorando gli ulivi. Riesco di nuovo ad entrare. C’è la direttrice della Certosa, Anna Fontana, è con il marito. Lucidissimi e gentilissimi (come il custode) anche se intorno c’è l’inferno. Io scatto altre foto. Loro controllano che tutto sia a posto.
Le fiamme, di colpo, è come se avessero rallentato la loro avanzata: la Certosa è salva. Fuori le luci blu della polizia municipale. La gente sta scappando dal gruppetto di case sotto Montemagno. Famiglie intere che fuggono. altri in strada che osservano la montagna. Volti coperti da mascherine improvvisate, indosso i primi vestiti trovati. La notte continua per tutti nella palestra di Calci. Siamo sfollati. Il folle gesto di un piromane criminale ha rischiato di cancellare tutto. È stata una notte di difesa, di gente comune che ha lottato con le fiamme. La Certosa è salva. Forse anche le case. Ma la montagna rosso fuoco fa ancora paura .