Ian Buruma
Dopo essere stato allontanato dalla Casa Bianca e da Breitbart News, Stephen K. Bannon — spesso considerato ” il cervello” della campagna presidenziale di Donald Trump — ha giurato che avrebbe rifatto l’Europa. La sua organizzazione, chiamata The Movement, ha base a Bruxelles e mira ad unire i populisti di destra europei e a demolire l’Unione Europea così come la conosciamo. Bannon vede il proprio compito come parte di una “guerra” tra il populismo e ” il partito di Davos”, tra le ” persone vere” — che, per usare le parole del suo sostenitore britannico Nigel Farage, sono bianche, cristiane e patriottiche — e le élite cosmopolite e globaliste. Bannon, quanto meno dalla stampa, viene preso sul serio.
Un obiettivo che sembrerebbe piuttosto arduo per questo pallone gonfiato americano, perennemente trasandato e promotore di idee bislacche sui cicli della storia destinati a sfociare in cataclismi per cambiare la storia dell’Europa. Pur avendo incontrato molti luminari di destra, come l’autoritario primo ministro ungherese Viktor Orbán, il vice primo ministro italiano Matteo Salvini e Boris Johnson, il clownesco ex ministro degli Esteri britannico (i quali gli augurano tutti il meglio), Bannon non ha quasi alcuna esperienza di politica europea. A Praga ha lasciato di sasso una folla di simpatizzanti sparando a zero contro “l’ingiusta concorrenza” di quei Paesi stranieri che ricorrono a una manodopera a basso costo. Il Pil della Repubblica ceca deriva soprattutto dalle esportazioni, ed esattamente per quel motivo.
Tuttavia, il problema principale è che i leader populisti di destra sono un gruppo piuttosto variegato. Lo stesso Bannon è un reazionario cattolico che ama immaginare di essere un guerriero che si batte contro le forze del male ( fantasie alimentate dalla passione per gli eroi di Hollywood). Orbán è un autocrate che sfrutta il disincanto popolare nei confronti del post comunismo per prendersela contro gli immigrati e l’Unione Europea: anche l’economia ungherese senza i sussidi di Bruxelles sopravviverebbe a stento. I demagoghi del Nord Europa, come Geert Wilders, vedono nell’Islam la principale minaccia alla civiltà occidentale, ma difendono cause come quella dei diritti dei gay (perché presumono che i musulmani li odino). Boris Johnson non rappresenta altri che se stesso, ma i suoi compagni pro-Brexit non sono tanto interessati alla minaccia islamica quanto ad una grandiosa versione del nazionalismo inglese.
Il Fronte nazionale francese, che oggi si chiama Raggruppamento Nazionale, è opera della famiglia Le Pen, che tenta in ogni modo di prendere le distanze dalle proprie radici antisemite e vichyiste. Così come negli anni Venti e Trenta accadeva con il fascismo europeo, nemmeno oggi è facile trovare molta coerenza ideologica in queste varie correnti politiche, e men che meno nel Movimento di Bannon. Anche se sono tutte accomunate da un’animosità diretta ora contro i musulmani, ora contro qualsiasi tipo di migrante, molto spesso contro l’Unione Europea e immancabilmente contro le élite liberali, o — come li definisce il primo ministro britannico Theresa May — i “cittadini di nessun luogo”.
Questa animosità contiene un che di cospiratorio; l’idea che l’uomo comune sia alla mercé di una fumosa rete di burattinai in grado di determinare il destino del mondo. Ma per quanto la retorica e le politiche contro i migranti possano essere sgradevoli, il vero obiettivo della collera dei populisti rimane quell’élite globalista di sinistra che ai loro occhi è rappresentata da George Soros e da altri liberal, accusati di promuovere (per proprio interesse) i diritti umani, la compassione verso i rifugiati e la tolleranza religiosa. Sarebbero loro a inondare le terre cristiane di stranieri, accoltellando così la civilizzazione occidentale alle spalle. Bannon ha persino espresso ammirazione nei confronti di Soros, che pure considera una sorta di Satana: egli stesso ambirebbe ad essere il Soros della destra.
Può sembrare ironico che i nazionalisti radicali, tra cui Bannon, possano desiderare di unirsi in un movimento globale, come a voler scimmiottare i loro nemici internazionalisti. Eppure, di ironico non vi è nulla, dal momento che i populisti, più che distruggere l’elitismo in quanto tale mirano a far fuori le vecchie élite. A questo atteggiamento si deve il loro linguaggio comune, fatto di autocommiserazione. Come se Orbán, Salvini, Wilders e gli altri fossero oppressi dal “partito di Davos”. Spesso si sentono esclusi, persino guardati con sufficienza. E credono che per loro sia arrivato il momento non solo di governare, ma di esigere vendetta per tutte le offese che ritengono di aver subito. Ecco perché Donald Trump, il rozzo immobiliarista dall’atteggiamento sprezzante, è il loro eroe. È evidente che Trump si sente a proprio agio più con i dittatori che con i leader democraticamente eletti. L’idea di un uomo forte che tratta con un altro uomo forte gli piace. Tuttavia questo non basta a fare di lui un internaziona-lista, così come dei gruppi di populisti di destra europei non bastano a dare vita ad un movimento internazionale coerente, o The Movement. Si tratta semplicemente di occasioni per scambiarsi reciproche lusinghe e pavoneggiarsi di fronte alle telecamere. È difficile capire se i populisti siano in grado di fare di più e possano, collettivamente, riuscire a smantellare l’Unione Europea e riorganizzare il mondo occidentale. Potrebbero frantumarsi tra rivalità ed recriminazioni. I loro interessi non sono gli stessi. Trump e Bannon vedono nella Cina il grande nemico globale. Orbán vuole fare affari con i cinesi. E i nazionalisti inglesi stanno portando il loro Paese verso uno splendido isolamento. In ogni caso, qualunque fine farà la destra globale, è improbabile che sarà Steve a condurvela.