Quello che il paesaggio dice Arminio: “Narro il presente”.

FULVIO PALOSCIA
Ogni luogo produce parole che sono solo sue. Parole che circolano in quelle strade, rimbalzano su quei tetti, si posano proprio su quegli alberi e non escono dai confini, seppure immaginari. Sono le parole che Franco Arminio capta nei suoi reading, e che restituisce percependone l’intonazione originaria. Perché lui non è solo un poeta, anzi, «il più grande poeta italiano» secondo Roberto Saviano. È una specie di rabdomante delle vibrazioni che i luoghi emanano, e che ha teorizzato in una scienza tutta sua. La paesologia, che trova accoglienza al festival di Radicondoli dove stasera Arminio legge le sue Poesie d’amore e di terra, immerso nella natura del Prato delle Querce, alle Canterie, alle 19 (alle 18,15 in piazza della Collegiata parte il cammino per raggiungerlo). «La paesologia — dice Arminio, che è irpino, e nella sua terra devastata dal terremoto e tradita da una ricostruzione senza memoria, sul tema identità-territorio si discute ancora — è narrazione dei paesi nel presente, nella reazione prodotta dall’arrivo della modernità. È sguardo clemente sui luoghi, anche quelli senza attrattive ma che hanno comunque una loro bellezza irripetibile. Seppure se ne siano andati via tutti. Specialmente chi è rimasto». Una frase forte, “a effetto”, come quelle con cui Arminio cosparge i suoi versi? No.
È la realtà, incalza il poeta paesologo, «perché qualunque diserzione — a cominciare da quella dello sguardo — significa che la vita è altrove, mentre anche nei più piccoli paesi la vita c’è, resiste. La paesologia la rivendica, auspica residenti consapevoli e non accidiosi. Già salutare un anziano per strada è un progetto di sviluppo locale». La paesologia è un nuovo umanesimo, aggiunge Arminio, che ha nella poesia il suo fondamento. E il poeta è un animale, o almeno così Arminio interpreta il suo esserlo, «perché il poeta non è un opinionista, come i media oggi vorrebbero, ma un percettivo. Si affida ai sensi, al corpo, odora, fiuta, si rivolge d’istinto a tutti e non fa distinzioni. Non ha bisogno di altri poeti, ma delle persone. La poesia, insomma, può dialogare con tutto. Persino con la politica». Anche se la politica non è pronta «sia perché gode di spazi di comunicazione privilegiati e popolari, sia per colpa dell’autoreferenzialità (passata e presente) della nostra poesia: dialogare significa porsi nella condizione d’essere ascoltati, cosa che non le interessa. Ma attenzione, perché la poesia lavora anche per chi non se ne nutre. È un massaggio della lingua i cui effetti si riflettono anche al di fuori». La sua ultima raccolta, Resteranno i canti (Bompiani), sprizza ancora una volta sentimento pànico e impegno civile, e sarà l’ennesimo oggetto di culto di una foltissima schiera di appassionati. Che amano Arminio quasi fosse un guru, e che si sentono chiamati in causa dal “tu” rimbalzato di verso in verso («è una richiesta d’attenzione, d’ascolto, ma spesso penso alle mie poesie anche come preghiere»). L’assidua presenza del poeta sui social ha dato il suo contributo, «e non c’è contraddizione tra i nuovi media e il retrogusto arcaico della mia poesia. Anzi, collidendo, moderno e arcaico possono produrre qualcosa. Penso che non ci sia nulla di disdicevole nello stare sulla rete, a patto esista il contenuto, e io nel virtuale del web metto parole prese dal mondo reale». Come sempre, però, anche quello di stasera non sarà un semplice reading «perché non amo il precotto, ogni volta mi adatto alle sensazioni che quel luogo produce». Radicondoli, dunque? «La sua peculiarità e nel doversi preservare dal logorante turismo d’assalto. Da borgo a villaggioturistico. Non voglio demonizzare niente, certo è che il turismo non può essere l’unico sostentamento di una comunità.
Le istituzioni dovrebbero attivare altri fronti, prima di tutto ripopolando di nuovi residenti consapevoli questi luoghi, poi ripensando l’agricoltura non come roba da ricchi ma fonte di reddito per chi non lo ha».
Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/