Ufficialmente tra Genova e Milano non ci sono contatti, non ci sono schemi di gioco, non ci sono colloqui né confronti. Ma che le due banche principali cittadine, la Carige e la Popolare di Milano, formino una delle coppie più ammirate dell’ipotizzato prossimo risiko bancario, è l’analisi più ricorrente tra gli osservatori delle vicende finanziarie italiane. I dossier delle banche d’affari considerano che l’istituto milanese guidato da Giuseppe Castagna — dopo la cura di Piero Montani, guarda caso ora alla guida dell’istituto ligure — ha ottime potenzialità di integrazione con la banca genovese, a cominciare dalla complementarietà delle aree geografiche di riferimento: si formerebbe una grande banca radicata nel Nord-Ovest, non indebolita nel capitale. In più ci sarebbe un investitore importante, potenzialmente interessato a entrambe: Andrea Bonomi, già azionista della Popolare di Milano e ora candidato a rilevare quote della Carige dall’omonima Fondazione genovese, che invece deve vendere almeno parte del suo attuale 19% nell’istituto per ricavarne la liquidità necessaria per seguire l’atteso aumento di capitale da 700 milioni. Per il varo della ricapitalizzazione, Carige aspetta l’ok della Bce al capital plan proposto per coprire l’ammanco patrimoniale di 813 milioni di euro emerso dagli stress test (non dall’asset quality review). Bpm, dopo l’aumento da 500 milioni e la rimozione degli add-on imposti dalla Banca d’Italia, è invece uno degli istituti che può giocare il ruolo di aggregatore. Anche in questo caso la sua trasformazione in spa potrebbe favorire un’aggregazione con Genova, anche nell’ipotesi di compromesso elaborata dall’Assopopolari, ovvero il tetto al 5% al diritto di voto nelle ex Popolari diventate spa o la soluzione della popolare «ibrida» o «bilanciata»: un’autoriforma già proposta da Bonomi quando era investitore e presidente del consiglio di gestione della Bpm.
Ieri la svizzera Ubs è uscita allo scoperto dichiarando di essere salita al 2,164% del Montepaschi. Se pure l’1,52% è detenuto come prestatore, quindi senza diritto di voto, quello di Ubs (che è anche advisor di Siena) è il primo segnale che l’azionariato di Rocca Salimbeni si sta rimescolando in vista dei 2,5 miliardi di ricapitalizzazione che dovrebbe fare uscire l’istituto dalle secche e prepararlo di fatto per un’eventuale aggregazione. Ma con chi? Il boccone di Mps, nonostante capitalizzi ormai 2,14 miliardi, potrebbe essere pesante da digerire, per via della qualità del credito: dall’esame della Bce il Montepaschi è emerso con 2,1 miliardi di deficit patrimoniale ma soprattutto con 3 miliardi di svalutazioni da iscrivere nel quarto trimestre 2014. La pulizia del bilancio dalle sofferenze è essenziale per far ritornare gli investitori sulla banca, scottati dal precedente aumento da 5 miliardi di giugno. Il consiglio dell’11 febbraio farà chiarezza sui numeri, svalutazioni comprese, perché solo una banca senza rischi inespressi potrà essere appetibile per una fusione o acquisizione. In questo caso, la soluzione «italiana» è vista come quella più praticabile. E in prima fila gli analisti danno ancora Ubi Banca. Il passaggio della popolare bresciano-bergamasca a banca spa potrebbe agevolare l’integrazione. L’apertura di Giovanni Bazoli, fino a poco tempo fa vicepresidente di Ubi, alla riforma delle Popolari schiera di fatto parte dei grandi soci (i bresciani ex Banca Lombarda) a favore del cambiamento nella governance che potrebbe agevolare Ubi nel ruolo di aggregatore. Dalla banca ripetono che non ci sono dossier sul tavolo, per la ragione che il Monte è molto grande, forse troppo: una mossa su Siena richiederebbe un aumento di capitale e poi un intervento pesante sul personale. Ubi forse considererebbe con maggior favore l’ipotesi di uno spezzatino che le faccia acquisire pezzi di Mps nel Nordest (l’ex rete Antonveneta) o nel Centro Italia.