Le prime reazioni sono scontati omaggi all’orgoglio cittadino, all’insegna del «sappiamo fare da soli e lo dimostreremo». Il «no» al tandem Milano-Torino per le Olimpiadi invernali del 2 0 2 6, p ro n u n c i at o, co n una sospetta precipitazione, da un po’ tutti i leader politici delle due città non va sopravvalutato perché, in realtà, segna l’inizio di un lungo percorso di negoziato che, come tale, deve sempre partire da irrinunciabili diktat reciproci. Come ogni trattativa che si rispetti, anche le ambiguità sono utili, perché aiutano quel gioco del «cerino acceso» che dilata lo scorrere del tempo, il fattore decisivo per superare il pregiudizio dei veti, gli strumentali ostacoli e arrivare a quel risultato che tutti sanno inevitabile, ma nessuno ha il coraggio di ammettere: solo l’accordo tra Milano e Torino potrebbe consentire all’Italia di vincere la candidatura olimpica. Ecco perché persino l’arditezza lessicale di quella barretta «/» tra i nomi delle due città, che non esclude l’accoppiata, ma neanche una nomina al singolare, voluta dal presidente del Coni, Giovanni Malagò, può essere considerata un opportunistico scaricabarile, ma pure un abile messaggio alla politica perché sappia cogliere, dallo sport, lo slancio per realizzare finalmente quella macroregione del Nord-Ovest di cui si parla invano da decenni, ma che resta l’unica prospettiva di vero sviluppo e di vera competitività internazionale di questi territori. La concorrenza tra le candidature che i Paesi stranieri hanno presentato o stanno per presentare è certo temibile, ma, in questa occasione, non sembra offrire alternative insuperabili per la decisione del Cio, anche perché la complementarietà di Milano e Torino è quasi perfetta. Da una parte, la capitale subalpina possiede impianti olimpici già pronti e una recente esperienza organizzativa di indubbio successo. Dall’altra, Milano può contare sulla carica di entusiasmo e di iniziativa che, dopo l’Expo, sembra aver contagiato tutta la città e lustrato di glamour la sua immagine internazionale. Ma anche le reciproche debolezze paiono analogamente compensarsi, perché Torino sconta un certo appannamento progettuale e una minore percezione del suo ruolo in campo nazionale, mentre Milano presenta seri problemi logistici perché si possa raggiungere le località montane in tempi ragionevoli e nuove infrastrutture potrebbero danneggiare seriamente un territorio già con difficoltà ambientali molto gravi. Per i due sindaci, poi, l’occasione è imperdibile per uscire da reciproci rischi. Appendino, bisogna riconoscerlo, è riuscita con una paziente opera temporeggiatrice e con il fondamentale aiuto, prima di Grillo e successivamente di Di Maio, a superare i veti ideologici della parte più movimentista del suo partito. Un’apertura a un tandem olimpico con Milano, non incondizionata, ma neanche strumentalmente usata solo per costruirsi un alibi propagandistico, le permetterebbe di rinnovare i successi d’immagine che, anche in campo nazionale, avevano accolto i suoi primi mesi di sindaca e che, negli ultimi tempi, si sono scoloriti, tra inciampi giudiziari e magri risultati elettorali. Pure per il primo cittadino milanese, nonostante apparenze più favorevoli, l’accoppiata con Torino potrebbe giovare. Lo scontro tra una certa ubriacatura di successo, con una vena di arroganza paternalistica che sta invadendo tutta la classe dirigente milanese e una eventuale bocciatura, vedi il recente caso dell’Ema, l’agenzia europea dei medicinali scippata da Amsterdam, potrebbe avere conseguenze molto dirompenti per Milano. Proprio perché metterebbe in dubbio quel ruolo di forte peso internazionale che, forse troppo presto, si è auto-attribuita. Uscire dalla vecchia retorica di un certo provincialismo torinese e rinnegare l’altrettanta vecchia immagine del gradasso meneghino vorrebbe dire prendere atto delle dimensioni del mondo in cui oggi viviamo. Un mondo che non vieta di conservare identità specifiche e di cercare di esaltarle, che riconosce il valore delle differenze e delle caratteristiche peculiari di un territorio, ma che destina all’emarginazione economica e all’irrilevanza politica e culturale chi non comprende come le occasioni di crescita non possano essere sprecate con sciocche miopie isolazioniste.