è stato qualcosa di più personale”. E forse più toccante
Cos’è il successo per un fotografo?
“Non diventi famoso perché lo desideri. Fotografi perché è quello che vuoi e sai fare, poi un giorno sei un punto di riferimento e non sai perché. I fotografi che ho incontrato oggi, tanto più giovani di me, hanno gli stessi problemi che io ho ancora oggi. Sono molto insicuro nel mio lavoro. Ci metti tanto della tua vita, dentro le tue fotografie, che alla fine tutte hanno un significato per te, allora hai bisogno di qualcuno che dica ecco, in questa c’è di più!”.
Da cosa capisce se in una foto “c’è qualcosa”?
“Non lo so mai. Ogni volta torno a casa sicuro di avere fatto fallimento. Se non ci fossero mia moglie Lélia e l’aassistente Françoise non sarei in grado di scegliere. Solo guardando le mie foto con loro comincio a dire beh, questa forse non è così male”.
La fotografia è un lavoro di gruppo?
“Quando lavora, il fotografo è un cowboy solitario. Solo con le sue idee, i dubbi e le emozioni, sei un’unità, non una squadra. Ma la fotografia è un linguaggio, ed esiste solo quando arriva a destinazione”.
Che cos’è il talento in fotografia?
“Non saprei, però io so quando incontro un fotografo vero. C’è una luce, non la luce che viene da questa finestra, una luce interiore che accende le sue immagini”.
Non basta un buon occhio?
“Ragazzi con gli occhi ce ne sono tanti, ma devi provare piacere nel momento in cui fai la foto. Puoi avere dubbi prima, dubbi dopo, ma quando scatti devi essere immerso in quel piacere. Ecco, forse il talento è la sensazione di benessere che senti, o non sei un fotografo”.
Studiare serve?
“Ogni fotografo porta con sé suo padre e sua madre, il suo villaggio, i libri, la politica, tutto si fonde in un’unità che sei solo tu. Io sono diventato fotografo tardi, dopo aver provato a diventare avvocato, economista, ingegnere meccanico… Un giorno scoprii la fotografia, un caso. Esistono sicuramente grandi fotografi che non sanno di esserlo e magari stanno guidando un autobus, ma dentro sono fotografi incredibili che nessuno ha scoperto”.
Una vocazione?
“Mi dicono spesso Sebastião, sei un artista, io rispondo no, un fotografo. È un’occasione rara: noi fotografi abbiamo meno di due secoli di esistenza, forse fra vent’anni non ci saremo più. Sono fortunato, mi è stato concesso vivere nell’epoca giusta”.
La fotografia è un linguaggio sorpassato?
“Ci saranno ancora fotografi, ma non così tanti e importanti. Quando tutti usano questo (prende in mano il cellulare, ndr) non vogliono fare foto, usano la tecnica fotografica come linguaggio per comunicare. Va bene così, ma il lavoro dei fotografi documentari che aderiscono al momento storico scomparirà. Io sono probabilmente uno degli ultimi”.
Di sé ha detto: non sono né gesuita né militante. Quale spinta ha riempito di fotografia la sua vita?
“Dicono che sono un attivista, non è vero. Non appartengo a gruppi o partiti, la mia fotografia è la mia etica. Ho fotografato cose che ritenevo abbastanza importanti o terribili o sconosciute per rimanere. Non voglio convincere qualcuno di qualcosa. Ho degli ideali ma non sono sicuro di vincere delle battaglie. Sono solo sicuro di voler fotografare”.
Alla fine la mano dell’uomo è diventata la “mano” squamata di un’iguana. Alle radici delle ingiustizie umane sta il rapporto malato fra uomo e natura?
“L’Homo Sapiens è un predatore, e io sono un Homo Sapiens. Ho un’auto, ogni litro di benzina che consumo è più di quel che mi merito. Non sono pulito. Ma ho visto cambiare tante cose. Forse abbiamo ancora una speranza di sopravvivere come specie in armonia con animali, vegetali e minerali”.
“Genesi” è il racconto di una dimensione che supera l’uomo. Tornerebbe a fotografare le migrazioni, il lavoro, la fatica e il dolore?
“Io sono tornato a fotografare gli uomini. Non tornerei a fotografare lavoro e migrazioni perché ora mi preoccupa il destino della terra in cui sono nato, delle foreste amazzoniche, dell’acqua. Ci sono da ottanta a cento tribù che vivono in completo isolamento, dovremmo proteggere la loro scelta. Fotografo in mezzo agli indios da 4 anni, me ne servono ancora 2, il risultato lo vedrete nel 2021, si chiamerà Amazzonia”.
Dopo i reportage sui profughi di guerra lei disse “ho troppa morte dentro”. Esiste lo stress del testimone?
“Da quando cominciai sono un’altra persona, non so se più ottimista o pessimista. Ma se penso a cosa davvero ha cambiato la mia vita, è una cosa molto personale. Avere un figlio con la sindrome di Down mi ha portato a un altro livello di comprensione della società. Ho visto cos’è un mondo di silenzio”.
Il mestiere del fotoreporter è ancora credibile?
“Completamente. Sì, qualche opportunista se ne approfitta. Ma guardi cosa fanno i fotoreporter. Anche qui in Italia, quando raccontano la gente sui gommoni. O in Siria. Gli unici che stanno ancora in mezzo alla violenza rischiando la pelle sono i fotografi. Certo che potete fidarvi dei loro occhi. Ci mettono sopra la vita”.
Lunghi dibattiti sulla “estetizzazione della miseria”. Anche il suo lavoro ne fece le spese. È una questione ancora aperta?
“Questa idea della bellezza colpevole non è un problema dei fotografi. È un problema di chi si guadagna la vita criticando quelli che rischiano la vita per fotografare. Cosa significa estetizzazione? La fotografia è un linguaggio formale. Noi lavoriamo con la luce, lo spazio. Che una fotografia contenga più estetica di un’altra è un’assurdità inventata dal mercato dell’arte”.
Per chi ha fotografato? Per i contemporanei, per i posteri?
“La fotografia è specchio della società, io vivo dentro lo specchio, anche le mie fotografie sono nello specchio. Quindi ho fotografato prima di tutto per me stesso”.