Nervosismo spinto e voglia bruciante di riscatto, ecco il mood dell’ortodossia renziana nella settimana post elettorale. A dire il vero, nella direzione di domani la partita sembra chiusa prima ancora di cominciare. Maurizio Martina prenderà il posto di Renzi fino all’assemblea nazionale di aprile. E proporrà di prolungare il mandato dell’attuale segreteria nazionale, senza i nuovi innesti che reclamano le minoranze. “Ma consulterò passo dopo passo tutte le anime del partito”, ha promesso. Dovessero comunque insistere, si voterà sull’opportunità di un direttorio nuovo di zecca. Il secondo round, quello più delicato, coinvolge in pieno i gruppi dem. È come se Renzi considerasse prioritario controllare deputati e senatori, più che mantere il timone del Nazareno attraverso un fedele successore. Soltanto giocando un ruolo in Parlamento pensa di poter rianimare la sua leadership.
Il giorno fissato per decidere i capigruppo è il 22 marzo. Fino ad allora, gli ambasciatori continueranno a trattare. Boschi, per dire, assicura di non essere concentrata sul dossier – “il mio impegno negli ultimi giorni è stato solo quello di fare il mio lavoro a Palazzo Chigi” – ma si è spesa dopo le elezioni per favorire la rielezione di Ettore Rosato. L’alternativa è quella di Lorenzo Guerini, assai vicino a Graziano Delrio ed eterno tessitore tra il renzismo e le altre aree del Pd. Al Senato, invece, il Giglio magico è alle prese con numeri assai ballerini. Non a caso, i renziani temono che possa emergere un nome lontano dal leader di Rignano, se non addirittura l’uscente Luigi Zanda. “Leggere di autocandidature dispiace – lo attacca non a caso il renziano Davide Faraone – Vedremo con quali proposte politiche Zanda vorrà candidarsi”. Nessuna autocandidatura di Zanda, in realtà. Piuttosto la volontà di Faraone di emulare l’ostilità del capo verso il capogruppo uscente, che fu il primo ad attaccare il leader dopo le elezioni. A Palazzo Madama, poi, si fa spazio in queste ore un’altra soluzione: Teresa Bellanova. Di sinistra, ma anche amica personale di Renzi e Boschi.
Il vero scontro si consumerà sulla linea politica. La collocazione del Pd fuori dall’area di governo finirà inevitabilmente al centro di un braccio di ferro interno violentissimo, soprattutto se dovesse acuirsi lo stallo sul nuovo esecutivo. “È ovvio che noi dobbiamo restare all’opposizione – si sbilanciava tre sere fa Dario Franceschini con un compagno di partito – ma dobbiamo anche evitare il ritorno rapido al voto. A meno che non vogliamo crollare al 5%…”. Una provocazione, ma in fondo la stessa domanda che assilla Renzi: come gestire al meglio le consultazioni? Per il segretario dimissionario, la via di un accordo con i grillini non è sbarrata: semplicemente non esiste. E sebbene Gianni Letta continui a marcare stretto Lotti, sembra improbabile che i dem possano soccorrere un Cavaliere strozzato dall’egemonia leghista. Altro, ovviamente, sarebbe un governo di tutti, sotto la regia del Colle. Che fare, nel frattempo? Il leader si concentra sul controllo della maggioranza dei gruppi parlamentari. E tiene ben nascosta l’arma di fine mondo, da utilizzare soltanto nel caso in cui gli oppositori interni dovessero prendere il controllo definitivo del partito: la scissione. “Matteo – gli sussurra Bonifazi – dobbiamo tenerci pronti a tutto”. Non sembra aria di smobilitazione.