Ora che a Piombino ha vinto la disillusione, il famoso striscione «Merci monsieur Rebrab» sarà stato fatto a pezzi, quantomeno riposto. Nessuno difende più il magnate algerino che prometteva mari e monti e che poi ha finito per lasciar morire lo stabilimento. Anzi, tutti vogliono che se ne vada, che abbandoni la partita, dopo averlo osannato come il salvatore della Patria. Persino il governatore della Toscana, Enrico Rossi, che solo due mesi fa minacciò un mezzo finimondo nel caso in cui l’algerino fosse stato tagliato fuori («Se arriva British Steel, che prevede la realizzazione di soli laminati e di 700 lavoratori, mi dimetto») e ipotizzò un complotto ai danni di Piombino («Mi domando se dietro agli imprenditori siderurgici italiani non vi siano le banche che non finanziano Aferpi»), persino lui ora prende le distanze: «Aferpi ha disatteso gli impegni assunti. Chiedo anch’io, come fanno i lavoratori, un incontro urgente per imprimere una svolta». E per svolta s’intendono due scenari possibili: un imprenditore in grado di affiancare Issad Rebrab, guardato di traverso dalla lobby siderurgica italiana e senza fiducia dal ceto bancario, oppure risoluzione del contratto stipulato nel dicembre 2014 e nuova gara.
Non è la prima volta che Piombino passa dai sogni alla disillusione e le entusiastiche dichiarazioni dei politici vengono smentite dai fatti. Successe già per Khaled al Habahbeh, nell’autunno del 2013, che promise investimenti per tre miliardi e un piano che piacque all’allora sindaco Gianni Anselmi: «Smc è un gruppo che sta mettendo la faccia in questa vicenda — dichiarò al Tirreno —. Ma nessun innamoramento». Il governatore Enrico Rossi salì di tono: «Progetto importante, sulla carta è il migliore auspicabile». Pochi mesi e tutti scoprirono che era un bluff: Khaled e la sua Smc non avevano il becco di un quattrino e per Piombino fu buio pesto.
Così nel luglio 2014, quando Issad Rebrab di Cevital irruppe sulla scena sbaragliando Sajjan Jindal e la sua offerta minimale che salvaguardava solo 700 posti di lavoro, tutti pensarono a un nuovo Re Magio. Il piano presentato al commissario straordinario Piero Nardi era di prim’ordine: 400 milioni d’investimento (saliti a un miliardo dopo pochi mesi), riassorbimento di 1.480 lavoratori in siderurgia, ripresa del ciclo integrale dell’acciaio con due forni elettrici (poi ridotti a uno) da un milione di tonnellate ciascuno, un nuovo treno rotaie a Ischia di Crociano, altre assunzioni nell’agroalimentare e nella logistica, oltre allo smantellamento e alla bonifica delle aree ex-Lucchini. In città si accese il tifo per l’algerino, inserito da Forbes al 579° posto della classifica tra i più ricchi al mondo, al 9° in Africa e al primo in Algeria. È vero che, tranne una partecipazione iniziale in Sotecom, Issad Rebrab si era distinto in altri settori e soprattutto nell’agroalimentare, ma il suo capitale era stimato in 3,1 miliardi di dollari e in Francia aveva rianimato Fagor Brandt (elettrodomestici) e Oxxo (infissi). Insomma, dava fiducia. E la sua idea d’inserire le produzioni piombinesi in una nicchia mondiale di alta qualità fece brillare gli occhi a tutti. L’ex sindaco Anselmi, che pochi mesi prima si era associato alla protesta degli operai salendo sul tetto dello stabilimento, non esitò a dire che «questa può essere l’alba di un nuovo giorno per Piombino» e il 9 dicembre 2014, all’atto di firmare l’atto di vendita delle acciaierie, l’allora premier Matteo Renzi, si spinse oltre: «Esprimo gioia, soddisfazione e gratitudine, perché quest’accordo è un grande messaggio agli imprenditori stranieri. La qualità dell’Italia è fare le cose belle con grande tenacia».
Neppure tre mesi ed ecco le prime perplessità. Issad Rebrab fu invitato a Roma da Claudio De Vincenti, all’epoca sottosegretario allo sviluppo economico, perché illustrasse il crono-programma degli investimenti. Lui, il magnate, spiazzò tutti, affermando di voler riaprire l’area a caldo per giovare ai bilanci societari e perché i forni elettrici sono energivori. Pochi giorni dopo arrivò il contrordine. L’amministratore unico Farid Tidjani riconfermò il piano iniziale dei due forni elettrici, dell’agroalimentare e della logistica con una movimentazione dai 10 ai 15.000 container all’anno. Al di là delle oscillazioni di Cevital, l’attenzione iniziò ad appuntarsi sull’impossibilità di Rebrab di esportare i suoi capitali in Italia, complici i pessimi rapporti con il premier algerino Abdelaziz Bouteflika. Ma da noi la luna di miele continuò. E il 30 giugno 2015, alla firma dell’accordo di programma che prevedeva il riassorbimento dei 2.200 operai in mobilità, il sindaco Massimo Giuliani tracimò: «È nata Aferpi, è nata la stella del Mediterraneo». A quel punto Enrico Rossi fantasticò un ponte con il Terzo Mondo, annunciando un viaggio in Africa al termine del Ramadan, mentre l’allora ministro Federica Guidi sottolineò come l’impegno pubblico costituisse «un forte elemento di rilancio delle aree industriali di crisi e di attrazione di nuovi investimenti».
Insomma, una fiducia generalizzata e totale, nonostante che alle promesse non seguissero gli investimenti. E quando nel marzo del 2016 fu firmato a Parigi l’accordo per l’ingegnerizzazione e l’acquisto del forno elettrico e del treno rotaie tra Aferpi e Sms Group, le residue perplessità si trasformarono in una vampata di luce. Ancora Enrico Rossi: «Grazie a Issad Rebrab, che sta mantenendo gli impegni». Riccardo Cerza e Fausto Fagioli della Cisl regionale scivolarono nel misticismo: «È un sogno che la notizia giunga alla vigilia di Pasqua: quest’anno festeggiamo la resurrezione delle acciaierie di Piombino». Mirko Lami, della Cgil, volle fare preveggenza: «L’accordo segna il futuro di Piombino per i prossimi 50-80 anni».
Ma di lì a poco Fausto Azzi, nuovo amministratore delegato, disegnò lo stato delle cose: «Le banche ci guardano con sospetto e Rebrab può esportare al massimo il 20% del suo capitale, vale a dire trecento milioni». Macché trecento, replicò nel settembre 2016 Alessandro Profumo, ex presidente del Monte dei Paschi e all’epoca alla guida di Equita Sim nonché advisor di Aferpi: «Rebrab faccia uno sforzo, servono 500 milioni». Le banche, scottate dal pozzo senza fondo della Lucchini, non vollero esporsi in assenza di un progetto chiaro e neppure fornire anticipi per acquistare i semi-lavorati. Rebrab riuscì solo a versare 102 milioni, cui si aggiunsero i 18 concessi da Unicredit. E ancora Mirko Lami, a questo punto dubbioso: «Nessuno sa cosa succede. Rebrab è l’unico che ci ha messo i soldi: 102 milioni e un milione al mese per sostenere i costi di produzione delle nuove acciaierie». Ma in siderurgia un milione al mese è un’inezia, quasi niente: solo per un ciclo di laminazione ne servono una quarantina. Il parere di Profumo, la cui sollecitazione rimase senza risposta, finì per pesare sul ceto bancario e segnò il de profundis per Issad Rebrab.
Il resto è storia recente. Lentamente, chi prima e chi dopo, tutti si sono accorti che il tycoon non potrà mai mantenere le sue promesse. Tantomeno quella di essere lo «Zorro delle aziende in difficoltà», come in Francia lo definirono dopo il salvataggio di Fagor Brandt e Oxxo: non dispone neppure del capitale circolante, quello per l’acquisto delle materie prime, e lo stabilimento è praticamente fermo. Il sogno del capitalista benefattore, capace di rilanciare Piombino diversificandone l’economia, si è rivelato un miraggio, proprio come succede nel Sahara algerino.
- Giovedì 7 Settembre, 2017
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