Ce lo ricordiamo trainato per piazza Oberdan dal gigante Birillo al guinzaglio o a gigioneggiare nella supercazzola collettiva al vigile di via dei Renai di fronte al Bar Necchi con la sua inimitabile risata trattenuta. Gastone Moschin si è spento ieri all’Ospedale Santa Maria di Terni, a 88 anni. Come attore di teatro negli anni Cinquanta ha militato nelle compagnie dello Stabile di Genova, al Piccolo di Milano e allo Stabile di Torino, poi apprezzato attore al cinema con Anton Giulio Majano, Damiano Damiani e Francis Ford Coppola per cui interpretò l’arrogante gangster don Fanucci ne Il Padrino – parte II . Ma per la storia della commedia all’italiana e soprattutto per Firenze è da sempre e solo «il Melandri», l’architetto Rambaldo innamorato.
Che ci lascia così, come fosse un auto-epitaffio: «Come vorrei che venisse fuori un funeralone da fargli prendere un colpo a tutti e due quelli lì: e migliaia di persone, tutte a piangere, e corone, telegrammi, bande, bandiere, puttane, militari…». Non una ma due volte. La prima, l’inimitabile: il finale di Amici Miei , l’atto primo. Quello sfogo per il funerale del Perozzi e per come avrebbe potuto essere. E una seconda volta, sette anni fa, quando le telecamere del documentarista fiorentino Federico Micali andarono nella sua casa a Lodi per il corto L’ultima zingarata a 35 anni dalla pellicola di Monicelli. Doveva esserci anche lui in Santo Spirito, per la rievocazione. Ma stava già male e mandò un video-messaggio commovente. Firenze con le sue migliaia di tributi affettuosi tra figuranti, passanti, amici degli Amici che affollarono l’Oltrarno quella sera, gli dimostrò quanto gli voleva bene, in un grande abbraccio collettivo.
A parte il siciliano ma mezzo toscano Adolfo Celi, tra il cremonese Ugo Tognazzi, il francese Philippe Noiret e il piemontese Duilio Del Prete, fu proprio lui, veneto di nascita e umbro d’adozione, quello che ebbe più difficoltà a «sciacquare i panni in Arno» in quanto ad accento e inflessione. Ma aveva sciacquato ben più dei panni quando nel secondo capitolo della saga non esitò a gettarsi di testa, tutto vestito, nelle acque fangose del 4 novembre ’66 per salvare «un arazzo su cartoni del Mantegna».
Da anni si era ritirato in Umbria e lì aveva aperto una scuola di teatro con la figlia. «Si era chiuso a vita privata, restio a farsi coinvolgere in qualsiasi cosa» ricorda Micali che andò a trovarlo per girare quelle ultime melanconiche scene. «È grazie a sua figlia se siamo riusciti a convincerlo a riprendere ancora, dopo anni, il ruolo del Melandri» e dopo averlo fatto non riuscì nemmeno lui a trattenere lacrime e risate insieme. Il sindaco Dario Nardella lo ha ricordato con un tweet: «Caro #Moschin per noi sarai sempre l’ineffabile architetto Melandri. Addio amico nostro! #amicimiei». In pochi minuti la sua dipartita era già trend topic su Twitter.
«Oltre che un grandissimo attore, era un gran signore, garbato, spiritoso, anche un po’ timido. Moschin non era troppo diverso dal suo Melandri». Per Alessandro Haber, che nel secondo atto recitò la parte di Paolo il «bel vedovino», Moschin è stato una sorta di nume tutelare: «Ero un ragazzino, lo incontrai per caso al Bar Motta di Verona. Era il primo attore che vedevo in carne e ossa in vita mia. Lo fermai e gli raccontai che anch’io volevo diventare attore. E lui ebbe la pazienza di restare ad ascoltarmi… Un gentiluomo». A teatro, chiunque entrasse nel suo camerino, lo trovava completamente vuoto; giusto un asciugamano e una saponetta, nient’altro. Non aveva i vezzi di altri prim’attori, non era superstizioso, non portava monili; non aveva mai neppure una matita per gli occhi: «Era così bravo, così espressivo, che non aveva bisogno di truccarsi per andare in scena», ricorda Haber.
«Ma perché non siamo nati tutti finocchi?», urlava felice il Melandri dopo lo scherzo dello schiaffo ai pendolari in partenza da Santa Maria Novella. Quella battuta del primo atto di Amici Miei forse gli era rimasta impressa nella mente fino a tarda età: «L’ultima volta che ci siamo incontrati, qualche anno fa, fu per il casting di un film che poi non s’è mai fatto – racconta ancora Haber – lui mi disse che non gli interessava più recitare, ma quel copione su una storia di sette anziani omosessuali lo aveva trovato strabiliante e gli era tornata la voglia. E più si parlava della sceneggiatura più si rideva».
Giulio Gori Edoardo Semmola
- Martedì 5 Settembre, 2017
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