Domande forse superflue, prevedibili, retoriche. Eppure, decisive. Che cos’è «contemporaneo»? E ancora: a cosa pensiamo quando parliamo di contemporaneo? E, infine: quando inizia il contemporaneo?
Siamo di fronte a una categoria problematica, che ha valenze temporali e, insieme, spaziali. Evoca un territorio che abitiamo e percorriamo, senza però riuscire mai a perimetrarlo. Non esiste unanimità nel delimitare i confini di questo «luogo». Che ha molte tangenze con altri «luoghi», con i quali talvolta si mescola, fino a sovrapporvisi.
Si pensi alle dispute che, nel lessico accademico, tendono ancora a confondere arte contemporanea e moderna. In tanti ritengono che i due periodi siano interscambiabili. Questa tesi, tuttavia, impedisce di distinguere in modo netto la fase che va dalla metà del Quattrocento alla fine del Settecento e quella che va dai primi anni dell’Ottocento a oggi. Inoltre, mentre pochi hanno dubbi sull’inizio e sulla fine della modernità, in tanti si interrogano sugli «esordi» della nostra età. Secondo alcuni (Argan), comincerebbe nel 1770; secondo altri (Barilli), nel secondo Ottocento (dopo l’Impressionismo, con Cézanne). Ma — occorre chiedersi — è ammissibile una contemporaneità che dura da più di due secoli e mezzo e minaccia di non finire mai?
Per sottrarsi a simili dilatazioni, da qualche anno alcuni studiosi hanno avviato una radicale ridefinizione di questa «figura» liquida e sfuggente, collegandola spesso ad alcuni eventi politici di portata epocale, come ha ricordato il critico d’arte inglese Claire Bishop in uno stimolante pamphlet ( Museologia radicale , Johan&Levi).
Gli scenari dell’Occidente, innanzitutto. Sino alla fine degli anni Novanta, si considera contemporanea l’arte realizzata all’indomani della Seconda guerra mondiale. Dopo il 2000, quella prodotta dagli anni Sessanta. Infine, con la caduta del comunismo e l’avvento della globalizzazione, le esperienze nate dopo il 1989. E in Oriente? In Cina, si giudica contemporanea l’arte creata al termine degli anni Settanta, dopo la fine della Rivoluzione culturale; in Giappone, quella concepita dopo la catastrofe di Hiroshima; in India, quella eseguita sin dagli anni Novanta.
Differenti le posizioni degli studiosi sudamericani, i quali, per sottrarsi alle «nostre» classiche suddivisioni, tendono a non disgiungere la prima parte del Novecento dalla postmodernità. Mentre appaiono più articolate le periodizzazioni adottate in Africa. Nei Paesi anglofoni e francofoni, l’«età nuova» comincia tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta; allo stesso modo nelle ex colonie portoghesi, tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi del decennio successivo; in Sudafrica, negli anni Novanta, con la fine dell’apartheid.
Queste oscillazioni rivelano incertezze, dubbi. Dunque, non esiste un unico «contemporaneo». Ma esistono tante diverse forme di contemporaneità: e ciascuna rilevante area culturale del mondo ne ha offerto la propria declinazione. È il trionfo del relativismo.
È questa la ragione per cui alcuni tra i più avvertiti teorici dell’arte di oggi hanno invitato a spostarsi al di là di certe letture storicistiche, per interpretare il contemporaneo come una paradigmatica nozione metastorica e discorsiva. Come una «finzione operativa» (il filosofo Peter Osborne). Come un «atto produttivo dell’immaginazione» (Bishop). Ma soprattutto come un modo per misurarsi in maniera diversa con lo spazio del presente. Che si annuncia non come dato statico, ma come palinsesto mobile, destinato a modificarsi ininterrottamente, insinuando in noi dubbi e domande. Si tratta, potremmo dire con le parole di Antonio Tabucchi, del nostro «coinquilino esistenziale», di cui conosciamo solo alcune abitudini: l’indecifrabilità, la non-reversibilità. Ma non sapremo mai se l’attraversiamo o se ne siamo attraversati.
Certo, proclamarsi oggi contemporanei, ha ricordato Boris Groys, docente alla New York University, filosofo e teorico dell’arte sulla scena globale, significa sottrarsi alla logica del modernismo — segnata dalla volontà di tendere verso un avvenire glorioso — per abbandonarsi a «un differimento prolungato e tendenzialmente infinito», a un’attualità noiosa, «che riproduce se stessa senza condurre verso nessun futuro», come un video costretto a un inarrestabile loop.
Ma significa anche altro. A differenza di quel che sostengono tanti curatori chiamati a dirigere la Documenta di Kassel o la Biennale di Venezia, il contemporaneo allude al pensare ciò-che-è-adesso non come il vertice (provvisorio) di un’unica linea scandita in segmenti successivi, ma come una geografia dotata di densità e spessore: estesa ma unitaria, pronta ad assimilare antinomie e differenze, capace di abbracciare temporalità eterogenee, in tensione tra di loro. Come una pianura su cui episodi lontani si annodano secondo controritmi complessi, irriducibili al piano orizzontale della diacronia. Come una fessura longitudinale dentro cui si depositano frammenti provenienti da fonti diverse. Come una trama i cui molteplici fili si collegano tra di loro. O come un fiume che accoglie in sé tanti affluenti.
A queste stratificazioni aveva rimandato Walter Benjamin ne I «passages» , dove si parla del «tempo-ora» come di un istante in cui sono conficcate schegge di passato e di futuro, di preistoria e di post-storia; e dove si elogia l’«immagine dialettica», intesa come costellazione nella quale si incrociano l’arcaico e l’attuale; come evento che, prodotto in un determinato momento storico, si sporge fuori di sé verso radici remote di cui si sono perse le tracce; come nodo di sopravvivenze di periodi precedenti e di prefigurazioni possibili.
Benjamin ha colto il volto più perturbante e segreto del concetto di contemporaneità, su cui si basano le recenti riarticolazioni delle collezioni permanenti di musei come il Van Abbemuseum di Eindhoven, il Reina Sofía di Madrid e il Musm di Lubiana, che hanno mirato a «riavviare il futuro per effetto dell’inaspettata epifania di un passato significativo» (Bishop).
Il fondamento teorico di queste operazioni è costituito dalle riflessioni portate avanti, tra gli altri, da pensatori come Giorgio Agamben ( Che cos’è il contemporaneo? , uscito ormai quasi dieci anni fa, nel 2008), Terry Smith ( What is Contemporary Art? , pubblicato nel 2009), Alexander Nagel-Christopher Wood ( Anachronic Renaissance , 2010) e, appunto, Claire Bishop, i quali condividono la necessità di sganciare l’idea di «presente» da certe visioni astrattamente progressive.
Essere contemporanei, secondo questi autori, vuol dire non esserlo fino in fondo. Non adeguarsi alle pressioni delle mode. «Epocalizzare» la propria epoca: ovvero, sospenderla, metterla tra parentesi. Intendere la Storia non come un percorso caratterizzato da sviluppi e da avanzamenti, ma come il girato di un film privo di montaggio. Smarrirsi tra i sentieri di un tempo frantumato, che appare come una corda sfilacciata. Rompere le continuità. Violare le esattezze cronologiche. Commettere consapevoli errori nei confronti di ogni concordanza. Non coincidere con il contesto in cui ci si muove. Ma rifiutare le sollecitazioni dell’esistente e mettere in scena analogie tra «sequenze» lontane. Non tenere lo sguardo fisso sul «sorriso demente» della cronaca, né inseguire le oscillazioni del gusto. Ma essere «intempestivi», sperimentando scarti e sfasature, anacronie e discronie. Insomma, aderire alle emergenze della quotidianità e, insieme, conservare margini di distanza da esse.
Essere davvero contemporanei, ha scritto Agamben, significa scrutare quel che si nasconde dietro le evidenze. Spezzare le vertebre dell’attualità, per mettere in relazione questo tempo con altri tempi. Percepire nel buio del presente un’«inesitabile» luce che, «diretta verso di noi, si allontana infinitamente da noi». Vedere l’ombra che si annida dietro la superficie delle cose. Infine, «arrivare a un appuntamento che si può solo mancare».
- Domenica 6 Agosto, 2017
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