Bernard-Henri Lèvy.

Dodici volti. Dodici nomi, alcuni dei quali sono stati chiamati ad alta voce, come si fa con i condannati a morte prima dell’esecuzione. Dodici simboli della libertà di ridere e di pensare, barbaramente assassinati e oggi compianti dal mondo intero. Per questi dodici, per Charb, Cabu, Wolinski, Tignous, Bernard Maris e tutti gli altri, per questi martiri dell’umorismo che ci hanno fatto tante volte morire dal ridere e che invece, loro, ne sono morti per davvero, il minimo che possiamo fare è dimostrarci all’altezza del loro impegno, del loro coraggio e, oggi, del loro lascito.
Ai vertici della nazione francese spetta il compito di prendere atto della guerra che non hanno voluto vedere ma nella quale si trovavano ormai da anni, e impegnati in prima linea, i giornalisti di Charlie , quei redattori e vignettisti che erano — come ormai sappiamo — quasi degli inviati di guerra, dei Robert Capa della matita e del tavolo da disegno. Questo è il momento della verità della Quinta Repubblica.
È l’ora di guardare in faccia una realtà implacabile e di affrontare una prova che si annuncia lunga e terribile. È l’ora di smetterla, una volta per tutte, con i discorsi concilianti che ci propinano da tanto tempo gli idioti ammaestrati di un islamismo che si stempera nella sociologia della miseria e dell’esasperazione. Ma più di ogni altra cosa è venuta l’ora — adesso o mai più — di mostrare quel sangue freddo repubblicano che ci impedirà, pur guardando in faccia il male, di abbandonarci allo stato di emergenza e alle sue funeste semplificazioni. La Francia può — anzi, deve — ricompattare le difese che non siano, però, le mura di una fortezza assediata. La Francia deve — e lo deve a se stessa — mettere in campo un antiterrorismo senza poteri speciali, un patriottismo rivitalizzato, ma senza Patriot Act, una governabilità che, in poche parole, non cada in nessuno dei tranelli dove rischiarono di naufragare gli Stati Uniti dopo l’11 settembre.
A questo ci hanno invitato implicitamente le parole del segretario di stato americano John Kerry, che fu dieci anni or sono l’avversario sfortunato ma dignitoso di quel pessimo antiterrorista di George W. Bush. L’omaggio da lui reso nella nostra lingua, il francese, ai dodici martiri di quello che oltreoceano si chiama il Primo emendamento, quel «Je suis Charlie», ripetuto nello stesso francese del discorso commovente del presidente Roosevelt, l’8 novembre del 1942, sulle onde di Radio Londra, non ha forse avuto il doppio merito di ribadire non solo la dimensione epocale dell’avvenimento, ma anche di rivolgere alla nazione alleata un velato ammonimento contro la tentazione, sempre in agguato, di far ricorso alla tortura, a Guantánamo, e alla biopolitica liberticida?
A noi tutti, cittadini, spetta il dovere di superare la paura, di non reagire al terrore con lo spavento, di non armarci contro lo spauracchio dell’altro, di non cadere preda di sospetti diffusi, quasi sempre frutto di simili eventi traumatizzanti. Nel momento in cui scrivo, la saggezza repubblicana ha avuto la meglio. Quel «Je suis Charlie» inventato lì per lì, e come all’unisono, in tutte le grandi città della Francia, segna la nascita di uno spirito di resistenza degno del nostro passato migliore. E gli istigatori degli animi, che predicano senza sosta la divisione tra i francesi autoctoni e i discendenti degli immigrati, coloro che seminano zizzania e — al Front National come altrove — già vedono in queste dodici esecuzioni una nuova rivelazione divina a conferma dell’inesorabile avanzata della marea islamica e della nostra vile genuflessione ai profeti della «Sottomissione», ebbene costoro non avranno i risultati sperati.
Tuttavia, resta ancora aperta la questione: fino a quando? È essenziale che alla «Francia ai francesi» di Marine Le Pen e dei suoi sostenitori continui a rispondere, passata l’onda emotiva, l’«Union Nationale» dei repubblicani di ogni sponda, di ogni schieramento e di ogni origine, che hanno avuto il coraggio, nelle ore successive alla mattanza, di scendere nelle piazze e nelle strade. Perché l’Unione Nazionale è l’opposto della Francia ai francesi. L’Unione Nazionale resta — da Catone il Vecchio fino ai teorici del Contratto sociale moderno — uno splendido valore che, proprio perché conoscitore della guerra giusta, sa dove si nasconde il vero nemico.
L’Unione Nazionale è quella nozione che ha fatto capire ai francesi che gli assassini di Charlie non sono «i» musulmani, bensì un’infima frazione di coloro che confondono il Corano con un manuale di supplizi. Ci auguriamo che sarà questa idea a radicarsi e portare frutto dopo il magnifico risveglio del nostro senso profondo di cittadinanza.
A quelli di noi che seguono la fede islamica, vorrei dire che sarebbe opportuno protestare a voce altissima, e numerosissimi, sostenendo il rifiuto di questa forma fuorviante e spregevole di passione teologo-politica. I musulmani di Francia non sono, come si ripete fin troppo, obbligati a giustificarsi, ma invitati a manifestare la loro fraternità concreta con i loro concittadini massacrati, e così facendo a eradicare una volta per tutte la menzogna di una comunanza spirituale tra la loro fede e quella degli assassini.
I musulmani di Francia hanno la grande responsabilità, davanti alla storia, di gridare a loro volta quel « not in our name » dei musulmani britannici, che si sono così voluti distinguere, lo scorso agosto, dagli sgozzatori di James Foley. Ma hanno anche la responsabilità, più urgente ancora, di proclamarsi realmente figli di un Islam di tolleranza, di pace e di misericordia. Occorre liberare l’Islam dall’islamismo. Bisogna dire e ripetere che ammazzare la gente in nome di Dio equivale a fare di Dio un assassino. E ci si augura che non solo i saggi teologi, come l’imam di Drancy, Chalghoumi, ma anche l’immensa folla dei loro fedeli, sappiano dichiarare, finalmente, che il culto del sacro, in democrazia, è una minaccia alla libertà di pensiero; che le religioni, agli occhi della legge, altro non sono che delle credenze sullo stesso identico piano delle ideologie profane; e che il diritto di riderne e di discuterne, come quello di accettarle o respingerle, è un diritto di tutti gli esseri umani.
È su questo sentiero difficile, ma liberatorio, che procedevano quei pensatori dell’Islam che ho avuto il privilegio di conoscere dal Bangladesh alla Bosnia, dall’Afghanistan fino ai Paesi della primavera araba, e dei quali voglio ricordare il nome: Mujibur Rahman, Izetbegovic, Massoud, gli eroici caduti di Bengasi, come Salwa Bugaighis, sotto il fuoco o le lame dei barbari sicari degli assassini di Charb, Cabu, Tignous e Wolinski. È il loro messaggio che bisogna ascoltare.
È il loro testamento tradito che occorre recuperare al più presto. Anche da morti, costoro restano la prova vivente che l’Islam non è condannato a questa malattia preconizzata da uno dei nostri poeti e filosofi, Abdelwahab Meddeb, che ci mancherà più di tutti nei tempi bui che si profilano all’orizzonte. Islam contro Islam. Luci contro la Jihad. La civiltà pluralista d’Ibn Arabi, di Rumi e dei trattati di ottica di al-Haytham, contro i nichilisti dello Stato Islamico e i loro sicari francesi.
È questa la battaglia che ci aspetta, e la combatteremo tutti insieme.