Le parole di ieri di Giorgio Napolitano riportano il calendario indietro. Due anni fa, come ieri. Se possibile ancora peggio. Un tempo inutile per la politica, per il sistema istituzionale rimasto intatto, per l’economia che continua a dare segno meno.
Un segno meno in cui ormai si identifica e viene identificata l’Italia.

L’onda dell’anti-politica cresceva sotto i colpi degli scandali delle Regioni che Napolitano definì «episodi di corruzione inimmaginabili e vergognosi» chiedendo ai partiti una «profonda opera di risanamento» ma nella logica di restituire al sistema democratico partiti «rigenerati» da una profonda autoriforma e dalla riforma del sistema elettorale e istituzionale. Era il 2012 ma siamo allo stesso punto di prima. Nuovi scandali, un’antipolitica che non si arresta e che prende anche la forma dell’astensionismo come è accaduto in Emilia-Romagna. E una legge elettorale che ancora non c’è.
Due anni passati quasi invano. E il filo che segue Napolitano resta lo stesso, evitare l’autodistruzione dell’assetto democratico infettato dal virus dell’antipolitica che ieri non ha esitato a definire una «patologia eversiva». La sua profezia, con gli anni, si è avverata. Inutile ricordare il risultato delle urne nel 2013, inutile ripensare a quelle elezioni presidenziali che mandarono in tilt le forze politiche incapaci di adempiere a una funzione primaria come è quella dell’elezione del capo dello Stato.
Tornarono da Napolitano ma l’orologio è fermo lì. Qualche settimana fa le Camere sono andate di nuovo in tilt per la nomina dei giudici costituzionali – tra l’altro ne manca ancora uno – e si avvicina il momento di eleggere un nuovo capo dello Stato. A farlo sarà un Parlamento più debole di quello del 2013. Più disgregato, frammentato, delegittimato dagli scandali recenti della mafia Capitale. Forze politiche che non si aggrappano al rispetto delle istituzioni, come chiedeva ieri Napolitano, ma che sono attratte dal gioco del fare politica “fuori”.

Un “fuori” che è un luogo immaginario, la sede ideale di quel «demagogo di turno» di cui parlava il capo dello Stato anni fa, quando invece la soluzione – suggerisce Napolitano – sta dentro. Nel processo di risanamento istituzionale e non di demolizione dall’esterno del sistema democratico. Il lavoro dei partiti alle riforme va declinato in questo senso: nell’impegno di restituire efficienza e trasparenza al sistema istituzionale. Invece il paradigma dell’antipolitica è sabotare i luoghi delle istituzioni. «Mai era accaduto di vedere in Parlamento atti concreti di intimidazione anche fisica per impedire l’attività legislativa», diceva ieri il capo dello Stato.
E dunque la domanda è: se non c’è il Parlamento come luogo di discussione e decisione, quali sono gli altri luoghi? Nella visione democratica non ne esistono altri. Ed è questo il consiglio che Napolitano lascia ai partiti, ai loro leader, ma soprattutto ai giovani parlamentari, alle nuove leve di politici. Cambiare il paradigma dell’antipolitica. E impegnarsi nelle istituzioni. E deve essere una conclusione a cui sono arrivati anche gli elettori vista la perdita di consenso del Movimento 5 Stelle che dei luoghi “fuori” ha fatto la sua bandiera.

Una bandiera che però non è ammainata se l’antipolitica trova nuove declinazioni, nuove leadership, nuovi nemici. In un giorno di settembre del 2012, all’inaugurazione dell’anno scolastico, ai ragazzi Napolitano disse che «risanare la politica si può, se lo si vuole fare. Così come si può battere la mafia come fecero Falcone e Borsellino». Un esempio altissimo per una politica ridotta ai minimi termini. E che è sempre meno capace di dare il buon esempio.