L’arma pericolosa della dignità.

Chi chiedeva che Renzi, entrato a Palazzo Chigi, rinunciasse alla segreteria del Pd per una questione di bon ton politico, o era legato alle vecchie pratiche del bilancino tra correnti dc in auge nella Prima Repubblica, oppure faceva finta di non aver colto il nesso inscindibile tra le due cariche ricoperte da Renzi. Il quale però, con l’accorata lettera ai militanti del Pd affinché il partito possa dimostrare la sua dignità approvando senza moleste obiezioni la «sua» (di Renzi) legge elettorale, rischia di perdere ogni distinzione tra partito e istituzioni, tra militanti e parlamentari, tra il programma del Pd e quello delle altre forze politiche che potrebbero votare le regole del gioco politico, ma non certo per fare un favore al Partito democratico. Renzi ha deciso la drammatizzazione estrema. Come se la legge elettorale fosse l’ultima spiaggia, la prova suprema, l’apice dell’azione del governo. Vuole approvare in pochi giorni una legge che comunque sarebbe sterilizzata da una clausola che ne impedisce l’uso fino a che non viene ultimata la trasformazione costituzionale di un Senato non più elettivo. Ma impone la fiducia, esige che le minoranze si allineino. Oggi non c’è più il patto del Nazareno che gli dava la sicurezza di una maggioranza anche con una parte del Pd che recalcitrava. Oggi deve piegarne l’ultima resistenza, approfittando anche di una minoranza del partito confusionaria, divisa, titubante, perennemente oscillante tra velleità scissionistiche e necessità di chinare il capo fino a che la tempesta non sia passata. Solo che una legge elettorale non è una questione interna al partito. Non può precludersi la possibilità di un’interlocuzione con altre forze politiche. La massima che Renzi sembrava aver fatto propria — non si cambiano le regole a maggioranza, ma coinvolgendo forze politiche diverse in Parlamento — oggi viene clamorosamente disattesa. E adesso non solo non si ricerca il consenso delle altre forze politiche, ma si chiede al Parlamento di ratificare in tempi record una decisione interna al Partito democratico. È un’evidente forzatura. Renzi ha dalla sua un argomento formidabile: a furia di cercare mediazioni, non si riesce mai a portare a casa il risultato. È vero. Ma solo fino a un certo punto. Il Porcellum, per dire, non è stato varato in tempi lunghissimi. Fu anch’esso il frutto di un decisionismo spiccato, solo in parte temperato dai correttivi suggeriti e poi imposti dall’allora presidente Ciampi. Oggi un Parlamento che la Corte costituzionale ha dichiarato essere stato eletto con una legge elettorale che ha violato più di una norma della Carta ha il dovere di ricercare un’intesa più ampia. Che senso ha appellarsi alla «dignità» di un partito se sono in gioco delicati equilibri costituzionali e il varo di regole del gioco che devono valere per tutti e che dunque meriterebbero un consenso il più ampio possibile? E poi l’argomento della «dignità» è un’arma pericolosa. Che significa, che chi non è d’accordo con la lettera e lo spirito di una legge elettorale dentro il Pd, è automaticamente portatore di una posizione «indegna»? Il dissenso va contro la «dignità» di un partito? Oppure «dignità» viene usata come parola che equivalga a «determinazione», «velocità», «decisione», «immagine». Ma allora è un’altra partita. Legittima, forse anche sacrosanta dal punto di vista del presidente del Consiglio, ma che con la «dignità» ha davvero poco a che spartire. Perciò è urgente ristabilire un minimo di distinzione tra il partito e le istituzioni. Così come è necessario che il Parlamento non sia messo nelle condizioni di votare a favore di una legge elettorale solo perché altrimenti il governo cade dopo una sfiducia. La «dignità» è di tutti. Di chi vota a favore e di chi vota contro. Sulle regole del gioco, poi, non c’è disciplina militare che tenga.