A più voci. Filosofia dell’espressione vocale di Adriana Cavarero, a vent’anni dalla sua prima pubblicazione.
Annalisa Pellino è dottoranda in Visual and Media Studies presso l’Università IULM di Milano. Ha lavorato come curatrice, archivista e docente di storia dell’arte in carcere e nella scuola superiore. Collabora con la Spring School dell’Università di Udine-Gorizia per la sezione di Cinema e Arte Contemporanea.
Are the humanities undergoing a vocal turn?”. In un articolo del 2015 apparso sulla rivista Polygraph, Brian Kane avanza l’ipotesi che gli studi umanistici siano stati interessati negli ultimi anni da un vero e proprio vocal turn, in grado di competere con il linguistic turn e il visual turn. L’attenzione del musicologo per l’espressione vocale rientra in una più generale tendenza a riconsiderare l’importanza del suono e dell’ascolto nella lettura dell’esperienza audiovisiva contemporanea e nei processi di soggettivazione. Altri studiosi, invece, preferiscono parlare di auditory turn, che effettivamente esprime meglio la varietà dei fenomeni aurali che interpellano l’ascolto e la sua interazione con gli altri sensi. Che si scelga di usare l’una o l’altra formula, la voce è certo uno degli oggetti più interessanti da considerare in questo ripensamento radicale del modo in cui percepiamo noi stessi e il mondo, entriamo in relazione, ripensiamo i termini della nostra stessa identità e il rapporto con la tecnologia: messaggi vocali, interfacce conversazionali, podcast, tecnologie di sintesi vocale per la lettura dei testi e deepfake della voce realizzati con sistemi di intelligenza artificiale (si pensi a quella di Warhol nella nuova serie di Netflix The Andy Warhol Diaries).
Di fronte a questo scenario, però, c’è un aspetto che viene sottovalutato nella riflessione sullo statuto della phoné, sulla sua materialità e sulle sue implicazioni socio-psicologiche, etiche, estetiche e politiche. È il fatto che essa resta comunque il più carnale di tutti i suoni, e a dispetto dei vari tentativi di ricreazione delle sue caratteristiche specifiche come il tono o il timbro, con effetti più o meno naturalistici. Di questa corporeità si è occupata Adriana Cavarero, che nel suo A più voci. Filosofia dell’espressione vocale (Castelvecchi, 2022) – appena ripubblicato dopo circa vent’anni dalla sua prima uscita – esplora lo statuto della voce risalendo alle origini metafisiche del pregiudizio epistemico che ci porta ad assegnare un peso conoscitivo più alla parola scritta che non alla voce che la esprime. L’analisi di Cavarero non solo scuote le fondamenta della cultura occidentale basata sul paradigma oculocentrico, ma sostiene la centralità della voce nell’articolazione del politico e del femminile e, a partire dal pensiero della differenza sessuale, mostra come tale articolazione sia orientata dal sistema del linguaggio. In particolare, la filosofa valorizza l’idea dell’eccedenza della phoné, che è insieme fonazione e relazione, misura del sé ma anche dell’altro, contemporaneamente medium del linguaggio e sua messa in discussione.
Cavarero esplora lo statuto della voce risalendo alle origini metafisiche del pregiudizio epistemico che ci porta ad assegnare un peso conoscitivo più alla parola scritta che non alla voce che la esprime.
Il saggio parte da un confronto serrato con Platone per rileggere l’intera storia della filosofia come un processo di “devocalizzazione del logos”. Nelle concezioni arcaiche della voce, infatti, la phoné è assimilata sia al divino – come sua pura manifestazione sonora – sia al pensiero che si credeva prodotto dai polmoni e dall’apparato respiratorio e fonatorio: non a caso la parola nous (pensiero) rinvia a noos (naso). In questo senso è illuminante la differenza tra la cultura greca che, da Platone in poi, àncora la propria episteme alla sfera del visivo, e quella ebraica, che invece mantiene saldo il legame con la sfera uditiva. Nella prima la voce è sempre ricondotta alla parola scritta, quindi alla sua manifestazione visiva, insonora. Nella seconda, invece, la stessa potenza di Dio si manifesta non tanto nel Verbo, quanto nel respiro (ruah, in ebraico, pneuma nella versione greca dei Settanta e spiritus in latino) e nella voce (qol), sotto forma di “vento, brezza, bufera”, in una “sfera fondamentale di senso che viene prima della parola”. L’atto stesso della creazione consiste in un “puro vocalico, indifferente alla funzione semantica della lingua” e Dio diventa parola solo nella bocca dei profeti: è infatti la rilettura cristiana del Vecchio Testamento che riconduce alla parola (e non al respiro) l’atto della creazione. Sintomaticamente, la differenza si riflette anche nella lettura del testo sacro, che per gli ebrei avviene a voce alta con un’ondulazione ritmica del corpo che sottolinea la sonorità musicale della parola, mentre per i cristiani è silenziosa e immobile.
Un altro confronto importante per spiegare il fondamento “antiacustico e videocentrico” della filosofia e, per estensione, di tutto il pensiero occidentale, è quello che Cavarero stabilisce tra questa e l’epica, quindi tra Platone e Omero. Nell’epica, ciò che guida il discorso è la metrica, il ritmo e il suono, funzioni di un più complesso sistema mnemonico all’interno del quale il poeta cieco si fa cantore e interprete del messaggio della musa figlia di Mnemosyne. “Il vocalico comanda il semantico”, ma questo non è ammissibile nella casa della ratio androcentrica, tanto che Platone condanna l’epos e la mousiké, ovvero il piacere corporeo della musicalità: “sottratto all’evento dinamico del flusso vocale e consegnato alla fermezza del segno scritto, il linguaggio diventa un oggetto di osservazione […] assume una forma organizzata, lineare e rivedibile”.
Ciò che Cavarero contesta alla struttura del sapere occidentale, a partire dalle sue basi filosofiche, è il fatto di ridurre la voce a phoné semantiké, neutralizzandone la corporeità e il potere relazionale.
In particolare, ciò che Cavarero contesta alla struttura del sapere occidentale, a partire dalle sue basi filosofiche, è il fatto di ridurre la voce a phoné semantiké, neutralizzandone la corporeità e il potere relazionale. La filosofa, infatti, riconosce alla voce un ruolo centrale nella decostruzione del logocentrismo iniziata da Jacques Derrida con La voix et le phénomène (1967), al quale dedica l’appendice del libro riconoscendogli il merito di aver restituito indirettamente la voce alla sua materialità corporea. Nondimeno, se Derrida si concentra alla parola scritta (grammata) Cavarero si rivolge alla musicalità del vocalico che, attenzione, non va confuso con l’orale e, “come ogni strumento, necessita di una partitura”. Per chiarire la sottile ma sostanziale differenza fra le due dimensioni, la filosofa si richiama alla distinzione operata dal medievalista Paul Zumthor tra oralità, che indica “il funzionamento della voce in quanto portatrice di linguaggio”, e vocalità, intesa come “l’insieme delle attività e dei valori che le sono propri, indipendentemente dal linguaggio”. La voce, infatti, può essere sia portatrice di parola sia pura emissione sonora: del resto, se la prima può fare a meno della seconda, non si può certo dire il contrario. Che si tratti di parola scritta o proferita, la voce le contiene entrambe, ne stabilisce le condizioni di possibilità ma allo stesso tempo le eccede con la sua sonorità, stabilendo una tensione tra performativo e narrativo.
A questa tensione è dedicata tutta la seconda parte del libro, una galleria di ritratti di Donne che cantano, spesso figure femminili mostruose, teriomorfe e mortifere. Si pensi al canto mellifluo e seduttivo delle sirene, che sfidano il raziocinio di Odisseo, e sul cui corpo si consuma il complesso intreccio tra sistema del linguaggio e stereotipi di genere. Quella delle sirene, infatti, è originariamente una voce narrante, proprio come quella della Musa aedica, ma questo legame tra il canto e la phoné semantiké delle donne-uccello viene a perdersi nelle successive rappresentazioni che, non a caso, le trasforma in “sinuose, scarmigliate e pisciformi”, ridotte a puri vocalizzi o addirittura al silenzio. È questa solo la prima di tutta una serie di figurazioni in cui le voci femminili non sono mai presenti come parola o discorso, ma vanno incontro a un processo di sottrazione e fluidificazione: nell’acqua diventano puro suono ambientale che annacqua la soggettività e, per dirla con Douglas Kahn “spegne la scintilla dell’agency” (Noise, Water, Meat. A History of Sound in the Arts, MIT Press, 2001).
Un analogo destino di “nientificazione” (che nella nuova edizione diventa erroneamente “mentificazione”) tocca alla ninfa Eco. Punita da Giunone per il suo eccesso verbale e condannata a ripetere i suoni altrui. La ragazza ciarliera perde la facoltà di articolare i propri discorsi, il suo corpo si scarnifica fino quasi a mineralizzarsi e, assorbito dal paesaggio, si disperde nell’atmosfera. Nell’incontro erotico con Narciso, inoltre, Eco diventa un osceno “specchio acustico”, aspetto fortemente valorizzato nelle Metamorfosi di Ovidio, per cui l’huc coeamus (qui riuniamoci) di Narciso, muta, nella bocca di Eco, in coeamus (uniamoci) con riferimento al coito. Il loro duetto si basa sull’equivoco generato proprio dall’eccesso del vocalico che mina la comprensibilità del semantico: sul ritorno dello stesso suono da una parte e della stessa immagine dall’altra.
Cavarero si sofferma a lungo sul confinamento della voce femminile nell’inarticolato o nei due estremi del canto e del silenzio, che si configurano sia come campi speciali di interdizione da parte dell’ordine simbolico patriarcale, sia della sua sovversione.
Cavarero si sofferma a lungo sul confinamento della voce femminile nell’inarticolato o nei due estremi del canto e del silenzio, che si configurano sia come campi speciali di interdizione da parte dell’ordine simbolico patriarcale, sia della sua sovversione. Si pensi ad Ada (Holly Hunter) in The piano (Jane Campion, 1993), o ancora a tutti i personaggi femminili inaddomesticati del melodramma che muoiono cantando: “Carmen è una zingara, Butterfly e Turandot sono esotiche, Tosca è una cantante, Violetta è una poco di buono. Donne che vivono al di fuori dei ruoli familiari, figure trasgressive e spesso capaci di indipendenza, esse non si limitano a morire, ma devono morire perché tutto torni a posto”. L’opera, fra l’altro, è per Cavarero il luogo per eccellenza dove il principio acustico che orienta il femminile vince su quello videocentrico del maschile: ciò avviene attraverso la figura del castrato che rinuncia ai propri connotati virili per farsi corpo-voce di donna. E anche quando si riversa nella scrittura, la voce femminile mantiene il suo legame con la “sfera preverbale e inconscia, non ancora abitata dalla legge del segno, dove regna l’impulso ritmico e vocale”. A tal proposito la filosofa fa riferimento a l’écriture feminine di Hélène Cixous – qui assimilata alla nozione di chora semiotica di Julia Kristeva – insieme gesto estetico e politico: “scrittura fluida, ritmica e debordante, che rompe le regole del simbolico facendo esplodere la sintassi. Essa precede ed eccede i codici che governano il logos fallocentrico.” Cixous è un’ebrea algerina che prova a scompaginare e reinventare la sintassi della lingua paterna – il francese, la lingua del colonizzatore – musicandola con il tedesco da ebrea askenazita della madre in maniera del tutto in(a)udita: si tratta di un piacere legato alla voce materna che si mescola con quello orale del latte e informa una “lingualatte (languelait) che, nella sua effusione gratuita, ricopre tutto il registro dei piaceri orali e delle vocalizzazioni infantili”.
Ma allora, viene da chiedersi, cosa significa la voce quando si sottrae al sistema della significazione? Due sono gli aspetti su cui insiste Cavarero: l’unicità della persona e la relazione. La phoné esprime innanzitutto il corpo che la emette, in quanto manifestazione di una “singolarità irripetibile” che si manifesta nel dire piuttosto che il detto: “la voce pertiene al vivente, comunica una presenza in carne e ossa, segnala una gola e un corpo particolare”. Inoltre, al contrario dello sguardo, la voce è sempre relazionale: in latino, ci ricorda la filosofa, vocare è chiamare: “prima ancora di farsi parola, la voce è un’invocazione rivolta all’altro e fiduciosa di un orecchio che la accoglie”. Nella “prossimità pneumatica” si stabilisce dunque l’essere per l’altro, ovvero la relazione che ha luogo nel contatto diretto tra le cavità di un corpo che emette un suono e quelle di un corpo che lo riceve, in ciò che di più nascosto e vibrante c’è in ognuno di noi.
Anche qui sono numerose le voci, filosofiche e letterarie, che si incontrano in questo viaggio a ritroso alla scoperta della materialità della phoné: da Ida Dominijanni ad Hannah Arendt, da Jean-Luc Nancy a Emmanuel Lévinas; dal Re in ascolto di Italo Calvino a Hurbinek – il bambino nato nel campo di concentramento di Auschwitz la cui vicenda, narrata da Primo Levi ne La Tregua (1963), chiude significativamente il saggio. Proprio le storie del Re in ascolto e di Hurbinek dicono di quanto la voce sia un plus-de-corp – per usare un’espressione di Mladen Dolar (La voce del padrone. Una teoria della voce tra arte, politica e psicoanalisi, Orthotes, 2014) – che si rivela attraverso una serie di manifestazioni fisiologiche e somatiche capaci di eccedere la struttura del linguaggio, occupando uno spazio di verità e di relazione non linguistica con l’alterità, dove umano e animale si approssimano e la voce “qualcosa dice, ma niente che si possa fissare in un significato. Mima il linguaggio, senza arrivare alla parola. Comanda, seduce”.