Il tredici giugno scorso, ad Ardea dalle parti di Roma, Andrea Pignani ha ucciso due bambini e un anziano, poi si è ucciso. Non voglio raccontarvi la storia, non voglio piangere le vittime, allarmarvi quanto alla diffusione delle armi da fuoco o alle criticità del nostro sistema sanitario. L’hanno fatto in tanti e non c’è molto da aggiungere. Voglio parlarvi di cinema, di letteratura e di Michel Foucault. Che diceva: “la psicologia non potrà mai dire la verità sulla follia, perché è la follia che detiene la verità della psicologia”. Qualcosa, di questa verità, la conosce l’arte, perché dalla follia si lascia abitare.
Nei giorni dell’evento mi è capitato di rivedere Ordet, il film di Carl Theodor Dreyer. Il parallelo è contorto, ma significativo. Ordet è la storia di uno che si crede Gesù Cristo e, infine, resuscita davvero una donna morta. Sono gli anni ’20 e i personaggi, per quanto contadini timorati di Dio, hanno già introiettato la separazione positivista fra il piano della follia e il piano della realtà. Nessuno, dunque, crede a Johannes il matto: al contrario, tutti credono alla sua malattia mentale come fosse una pietra nella testa, un cancro che sta dentro l’uomo sano, ma tangibile, circoscritto, separato dal resto della persona. Non c’è intersezione fra la patologica fede di Johannes e il mondo: almeno finché il confine crolla e succedono i miracoli. Nel caso di Ardea, allo stesso modo, nessuno mette in dubbio la malattia mentale. Le posizioni contrapposte sono esattamente le stesse del film: ci sono quelli, sbrigativi, che maledicono Basaglia e vogliono chiudere i matti in manicomio, e gli altri che si affidano alle promesse terapeutiche della moderna, più sottile psichiatria. Nessuna delle due ottiche serve a qualcosa quando certi fantasmi della coscienza prendono forma: la fede resuscita le persone, la disperazione le uccide. E se, chiede Dreyer, il mondo potesse per una volta obbedire alla follia? La cronaca ci mostra che a volte accade.
Chiudere i manicomi è stato un grande atto di giustizia, ma non ci ha aiutato a capire perché i manicomi esistessero, e perché continui a esistere una sorta di mentalità manicomiale, che Foucault descrive così:
“In questo spazio fittizio, creato tutto d’un pezzo in pieno diciassettesimo secolo, si sono costituite delle alleanze oscure che cento anni e più di psichiatria detta positiva non sono riusciti a infrangere, sebbene si siano intrecciate per la prima volta, molto recentemente, nell’epoca razionalistica. È strano infatti che sia stato il razionalismo ad autorizzare questa confusione di punizione e di cura, questa quasi-identità del gesto che punisce e di quello che guarisce. Ciò suppone un certo trattamento che, all’articolazione precisa della medicina e della morale, sarà tanto un’anticipazione sulla punizione eterna quanto uno sforzo di ristabilire la salute”.
Se parla a noi, che abbiamo appena vissuto i due anni in cui la ragione medica ha sostituito l’etica, il filosofo francese diventa profetico. La malattia mentale è un’invenzione di chi studia le malattie mentali; così, solo con la frase ad effetto, rischiamo il più banale relativismo: nondimeno, in qualche modo è vero. Almeno nel senso che la malattia mentale è impensabile senza il lungo processo di problematizzazione, senza il negoziato fra tre parti: il malato, il medico e la società. Il malato è il più debole, ma non solo in quanto malato. Anche sul piano epistemologico, il suo contributo è dubbio: i sintomi che riporta possono essere distorti, anche se dice di sentirsi bene forse sta male, e se la verità coincide per forza con la realtà – il dogma del positivismo – allora la verità di un matto è sempre sospetta. Qui la differenza principale rispetto alle malattie fisiche: l’autodeterminazione del malato è quasi interamente assorbita dalla società, che chiede alla medicina di ristabilire il modo di vita ritenuto adatto. Fare il bene facendo soffrire, dice Foucault. Il problema, qui, è che anche la follia è un modo di vita, persino uno strumento di conoscenza nelle civiltà pre-scientifiche. Gli strascichi della psichiatria come ortodossia della vita si ritrovano, per esempio, nelle terapie di conversione – l’OMS ha eliminato l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali solo nel 1990. C’è un movimento, l’Hearing Voices Network, che si propone di ripensare in chiave positiva il fenomeno delle allucinazioni uditive – sentire le voci, uno dei sintomi della schizofrenia. Cosa succede, allora, quando il cosiddetto malato non si considera tale, la società ha deciso che lo è, e la medicina deve schierarsi dall’una o l’altra parte? Nel caso dell’omosessualità prima è cambiato il mondo, attraverso l’attività politica, e poi la medicina si è accodata. Dopo il postmodernismo e l’antipsichiatria già dovrebbe sorgere il dubbio che la nostra sia stata l’epoca in cui si è tentato di comprendere l’incomprensibile, incastonata fra due altre epoche in cui se ne prende atto e basta.
Su queste basi, dunque, sia la rabbia sia il pietismo nei confronti di Andrea Pignani sembrano assurdi. Sbaglia chi dice che non c’è niente da capire, che uno è pazzo e quindi spara, e sbaglia chi dice che quanto c’è da capire si possa davvero capire. Pignani era solo e disoccupato, e questi sono i sintomi localizzati di una disfunzione sociale, un grave problema tecnico nell’Italia del 2021, ma non rivelano niente riguardo al gesto. Le cose sono più complicate di così. La società rimuove, nel senso di Deleuze, le infinite possibilità dell’inconscio, e dunque “la pazzia dei nostri pazienti è un prodotto della distruzione che imponiamo a loro e che essi impongono a se stessi”. Pignani era solo e disoccupato, era stato sottoposto a TSO, ma forse era anche Majakovskij quando scrive “amo guardare come muoiono i bambini”: la follia è una biblioteca chiusa dall’interno, contiene in sé le proprie spiegazioni, tanto complete quanto inaccessibili. La follia basterebbe a se stessa, se non si scontrasse con l’impossibile imposto dalla società. Il manicomio è la manifestazione storica di questo impossibile, il luogo in cui il potere della disciplina si realizza fino in fondo impedendo al cosiddetto malato qualsiasi movimento esistenziale: là in manicomio, non poter agire e non poter essere coincidono. Da quando abbiamo chiuso i manicomi ridefiniamo continuamente gli spazi, il grado di presenza degli anormali nella società normale, senza per questo aver riconosciuto la loro libertà esistenziale. Sono sbagliati e sciolti, adesso, se prima erano sbagliati e in catene. Il paradosso, qui, è che la società si difende anche limitando l’esercizio della forza, adattando gli strumenti disciplinari alla propria ortodossia della vita. L’opposto sarebbe rovesciare i piani: non chiedere al mondo il perché della follia, ma alla follia il perché del mondo. La malattia mentale, diceva Ronald Laing, è uno dei luoghi da cui irrompe la luce.
Ma intendiamoci, questo articolo non propone rivoluzioni epistemiche e non tenta riassunti dell’antipsichiatria: è scritto per Andrea Pignani, l’assassino e il suicida. Perché lui non appartiene a una delle categorie usuali di vittime: gli ultimi – gli immigrati, i poveri – o i penultimi – i piccoli borghesi, gli esclusi dallo spirito dell’epoca. Ha ucciso, ma sfugge anche alla categoria del carnefice. Manca, alla stampa e all’opinione pubblica, il lessico per definirlo. È un’opportunità: così si può lasciare, per una volta, che lui definisca noi, le nostre reazioni pavloviane, di sgomento o di rabbia, di fronte ai fatti e alle persone. Il tredici giugno scorso un uomo ha ucciso due bambini e un anziano, poi si è ucciso, e niente di ciò che possiamo dire lo descrive, lo riguarda. Dobbiamo urlare e non abbiamo la bocca: così la follia scardina il nostro tentativo di curarla. Così scardina, più in grande, il nostro tentativo di mettere ordine, di migliorare il mondo, di trovare la corrispondenza perfetta fra verità e realtà. Cinema e letteratura, dicevamo, C’è un racconto di Cechov, Il monaco nero, che, come Ordet, parla di un uomo e della sua follia mistica. Ha le allucinazioni, dunque viene curato. Ma perché? Poi non gli resta altro che ammalarsi per davvero e morire, come tutti. E forse la lezione è questa, i fatti come quello di Ardea sono indicibili perché, in assoluto, abbiamo pochissimo da dire sulle nostre vite. Perché le viviamo, perché non sono ancora esplose nella violenza, sprofondate nella disperazione? Non possiamo giustificare il fatto di non essere ammattiti:
“Ora sono diventato più giudizioso e posato, però sono uguale a tutti gli altri: sono una mediocrità, a vivere mi annoio… Oh, come siete stati crudeli con me! Avevo allucinazioni, ma a chi dava fastidio? Domando: a chi dava fastidio?”
Anton Cechov