UNO SCONTRO A SINISTRA CHE GUARDA AL DOPO VOTO.

 

La Nota
Lo scenario Le parole di Prodi ripropongono un’unità insidiata dalle ipotesi di un accordo post elettorale tra i democratici e Berlusconi
La dichiarazione di voto di Romano Prodi a favore del centrosinistra è una mano oggettiva al Pd e ai suoi alleati, e una presa di distanza da Liberi e Uguali. D’altronde, alcuni dei collaboratori dell’ex premier sono candidati in quelle liste. E la formazione del presidente del Senato, Pietro Grasso, fatica a decollare. Sostenendo che il Pd lavora per l’unità, Leu no, Prodi mette il dito nelle ferite fresche della sinistra. Ma «il centrosinistra», è la replica piccata di Grasso, «non si è potuto ricomporre per volontà di Renzi. Le liste e le otto fiducie sulle legge elettorale sono segnali inconfutabili».
È l’ufficializzazione di una guerra aperta che si proietta oltre il voto del 4 marzo. Nelle parole del fondatore dell’Ulivo si coglie l’ostinazione a cercare una sinistra riunita. E si conferma, implicitamente, l’ostilità per la prospettiva di un accordo con Silvio Berlusconi. È significativo che il coordinatore del Pd, Lorenzo Guerini, si affretti a assicurare a Prodi che «per noi l’avversario è alla nostra destra. E l’obiettivo è dare seguito ai risultati raggiunti dai nostri governi». È possibile che le due ipotesi, sinistra unita e accordo Pd-FI, si rivelino entrambe impraticabili per questioni insieme numeriche e politiche.

Di certo, l’insistenza renziana su un candidato dem a Palazzo Chigi lascia pensare che il suo partito voglia presentare al capo dello Stato, Sergio Mattarella, una rosa di nomi. Significherebbe ribadire una certa riluttanza a indicare Gentiloni come il premier del partito. D’altronde, il segretario del Pd lo paragona alla «camomilla», e nella sua cerchia si usano espressioni più rudi. Sentir dire che «Gentiloni ha fatto meglio di Renzi», come ha fatto ieri il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, non aiuta.

Il segretario dem nutre una speranza residua di compiere il miracolo e di dare ancora le carte. E c’è chi vuole crederlo, non solo tra i suoi fedelissimi. L’idea di raggiungere il 25 per cento o più dei consensi viene rilanciata dalla sottosegretaria Maria Elena Boschi. E lo stesso ministro Dario Franceschini ha voluto precisare che «questa storia della renzizzazione del Pd mi pare una balla». Difesa comprensibile: alle elezioni si presenta anche lui, e accrediterebbe il proprio ridimensionamento.

Franceschini sa che le liste sono un moltiplicatore di tensioni. È successo anche dentro FI, nella Lega, nel M5S, tra Liberi e Uguali. E la riforma elettorale ha accentuato le forzature. Non è facile, oltre tutto, scaricare su Renzi le responsabilità, quando le sue scelte sono state condivise e appoggiate. E ora l’imperativo è di perdere il meno possibile: se non altro per dimostrare che la scissione di Bersani e D’Alema non ha prodotto nessuna sinistra alternativa.

 

Corriere della Sera.

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