di Massimo Recalcati
L’esame di maturità si è sempre caricato di un valore simbolico, come una sorta di rituale di passaggio, uno spartiacque che ratifica la fine di un tempo della vita e l’inizio di uno nuovo. Per molti ritorna insistentemente nei sogni come il prototipo della prova. Può anche apparire nella forma dell’incubo di una sentenza inappellabile che ci scopre sempre impreparati.
Anche sotto l’oppressione logorante della pandemia il significato rituale dell’esame di maturità non viene meno. Anzi, quest’anno esso sembra coincidere con la ripresa effettiva della vita, con la fine del coprifuoco, con il tanto atteso ritorno alla libertà. In questi due ultimi anni, la maturità è stata, in realtà, un esame selvaggio, fuori da ogni setting, somministrato quotidianamente a tutti i nostri figli. Lo ha imposto la docenza spietata del Covid 19. Non era previsto, non era possibile, ma è accaduto. Ogni percorso di formazione lavora sempre attorno ad un impossibile, a qualcosa che non può essere aggirato, ad un osso, ad un resto inassimilabile. Lacan lo chiamava «reale». Ogni formazione implica un reale impossibile da digerire integralmente: è il reale dell’ingiustizia, del cattivo incontro, della caduta, dell’inciampo. La vita acquista forma non solo grazie alla fortuna dell’incontro felice, ma anche attraverso la faccia dura e scura del reale. Nondimeno, il compito più alto dei formatori consiste nel non lasciare soli quei soggetti che, colpiti dall’impatto con il reale, cadono e rischiano di perdersi. Nel Qoelet biblico si evoca con forza questa eventualità: guai a chi cade da solo e non può contare su nessuno che lo aiuti a rialzarsi.
La scuola è una forma insostituibile di comunità che introduce la vita individuale in quella collettiva. Il suo compito non è quello di emettere sentenze che escludono, ma fare in modo che anche chi cade possa avere sempre un’occasione di ripresa e di trasformazione che non sanzionino il ritardo come una perdita incolmabile. Questo significa non solo premiare chi ha mostrato più merito, ma includere chi è rimasto indietro. Ordinariamente l’esame di maturità deve verificare la preparazione didattica di ogni allievo rispetto al suo percorso di studi. Si tratta di un bilancio conclusivo che, come tale, porta fatalmente con sé il carattere di un giudizio che si traduce in un punteggio finale, definitivo, senza appello ulteriore.
I provvedimenti del ministero hanno, in considerazione di questo anno scolastico fatalmente accidentato, giustamente ridimensionato la prova, ma non l’hanno soppressa. È accaduto anche nei più recenti scrutini di fine anno. Il giudizio didattico ha tenuto conto della ferita inferta dal trauma nei nostri figli, ma non si è dissolto, non ha reso il passaggio all’anno successivo automatico. Molti ragazzi sono stati respinti e dovranno ripetere un anno già in sé sciagurato, molti si sono persi nel cammino, sono rimasti indietro, sono, appunto, caduti e molti, infine, avranno debiti da riparare a settembre.
Ma se la ferita era così evidente per la sua profondità e per i suoi effetti anche psicopatologici (attacchi di panico, fobie sociali, somatizzazioni, depressioni, ecc), non sarebbe stato forse più opportuno azzerare ogni forma di prova? Su questo giornale ho più volte ricordato l’importanza, in questo periodo straordinariamente accentuata, dell’avere cura della relazione come fondamento di ogni possibile didattica. Credo che la stragrande maggioranza dei docenti sia stata pienamente consapevole di questa priorità. Con una difficoltà aggiuntiva che si è a loro imposta inevitabilmente: come preservare la Scuola come luogo di formazione, dove la prova resta un atto inaggirabile per ciascun allievo anche in un tempo che ha imposto prove extrascolastiche estreme? La nostra Scuola ha dovuto condurre la propria imbarcazione in una difficile navigazione tra la Scilla del trauma e della ferita e la Cariddi della vittimizzazione e della deresponsabilizzazione. Da una parte il grave rischio della sottovalutazione della ferita, dall’altra quello di una sua, altrettanto grave, enfatizzazione che conduce pericolosamente diritti verso la diagnosi infausta dell’esistenza di una generazione Covid o di una generazione Dad.
Siamo stati di fronte ad un dilemma: la valutazione didattica non può prescindere dalla ferita, ma la profondità di questa ferita non deve identificare il soggetto al trauma che ha subito. D’altra parte come non tenere conto che una bocciatura, soprattutto nelle scuole dei quartieri più popolari, rischia di tagliare fuori la vita di quei ragazzi che sono già dalla loro origine con meno opportunità? Al tempo stesso, però, come non favorire l’innestarsi nei nostri figli dell’alibi dell’identificazione al proprio trauma preservando il carattere formativo della prova?
I ragazzi che affrontano questo strano esame di maturità sono già sopravvissuti al magistero tremendo del reale, lo hanno toccato con mano. Lo affrontino allora con la schiena diritta, non abbiano paura, siano, come sono stati, all’altezza di ciò che ci è accaduto. È una prova che sarebbe stolto ridurre ad una verifica dei semplici meriti dell’apprendimento. Si tratta di un passaggio civile che riflette quello che dovrà compiere l’intero nostro Paese: non lasciarsi vincere dal male, non lasciarsi cadere, ripartire con ancora più forza.