di Ernesto Galli della Loggia
La catastrofe del Pd romano non nasce né oggi né ieri. Essenzialmente è l’esito della catastrofe di un’intera città. Se si vuol cominciare a capire basta passeggiare una mattina per una delle sue tante strade commerciali, dove si addensano negozi e bancarelle di ambulanti. E osservare in mezzo alla confusione di quel mercatino all’aperto, dei clienti davanti alle vetrine, l’incedere lento, annoiato e superbo, del vigile e della vigilessa di turno. Furgoni e automobili stazionano regolarmente in sosta vietata, in doppia fila, ma per tutto questo i due non hanno occhi, perlopiù non se ne curano. Loro entrano nei bar o nei negozi, ai cui affari certo non nuoce che si possa arrivare in macchina fino al loro uscio; parlottano amichevolmente, celiano, scambiano battute con i proprietari, escono. Talvolta con qualcosa sotto il braccio. Passano alla bancarella dell’ambulante, quasi sempre extracomunitario. Adesso sui loro volti si disegna un certo cipiglio, il gesto si carica d’autorità, nelle poche parole il tu è d’obbligo. Il vigile e la vigilessa palpano la merce, i golfini, le borse, gli stracci. Capita anche che tirino fuori qualcosa con dei moduli, che impugnino una penna. Ma prima di scrivere ci sono sempre lunghi parlottii, conciliaboli. Alla fine quasi mai il modulo viene riempito. Il giro può proseguire. Questa, vista dal basso, è Roma, la capitale d’Italia. Dove il corpo dei Vigili Urbani insieme ai funzionari degli uffici comunali che di essi più si servono (l’Urbanistica, l’Edilizia, il Commercio) sono da sempre oggetto di inchieste e di denunce d’ogni tipo.
Ma come del resto i suddetti funzionari, loro, i vigili, sono sempre lì, indomabili, zazzeruti, a volte lavativi, quasi mai sulla strada. E al pari dei taxisti, intoccabili. Ne sanno qualcosa quei loro pochi comandanti che, poveri illusi, hanno creduto di poter cambiare le cose.
Sono l’emblema di un Comune dove tutto sembra avere un prezzo (anche per riscuotere un mandato di pagamento pare che si debba lasciare una tangente). Precipitato nella voragine delle spese e dei debiti incontenibili, dell’inefficienza più spaventosa dei suoi servizi pubblici — oltre un terzo dei cui mezzi sono ogni giorno fermi per mancanza di pezzi di ricambio, con la raccolta dei rifiuti ormai in certi quartieri quasi inesistente —. Servizi pubblici che un sindaco di memorabile nullità — Gianni Alemanno — affidò solo pochi anni fa a dei veri gaglioffi, capaci di assumere in poco tempo oltre mille, dicesi oltre mille, tra parenti, amanti, mogli e amici. Un Comune, quello di Roma, nel cui Consiglio sono ormai decenni che non mette più piede quasi nessuna persona disinteressata, appartenente all’élite sociale e culturale della città, desiderosa di offrire le proprie competenze, vogliosa di impegnarsi per il bene pubblico. Niente: da decenni quasi solo vacui politicanti di serie B, faccendieri, proprietari di voti incapaci di parlare italiano, quando non loschi figuri candidati a un posticino a Regina Coeli. Del resto non è a un dipresso così dappertutto? L’Italia del federalismo e dei «territori» non è forse, con qualche eccezione, tutta più o meno nelle mani della marmaglia?
E sempre di più della malavita. Con le sue potenti risorse organizzative e finanziarie la delinquenza calabro-napoletana ha messo al proprio servizio la delinquenza romana. E dopo aver piazzato qui il grande mercato dei suoi traffici di droga, ha deciso di fare delle attività commerciali e produttive dell’Urbe lo strumento del riciclaggio dei suoi soldi. Il rapporto con l’amministrazione e la politica cittadina è stato un momento decisivo di questa infiltrazione.
La vasta pratica corruttiva da tanto tempo fisiologica negli uffici comunali, della Provincia, della Regione, ma tutto sommato fino ad allora di non grande cabotaggio, si è trovata esaltata e moltiplicata. È diventata pervasiva. E per un effetto necessario, sempre più contigua a una dimensione crudamente criminale. Ormai il cuore della ricchezza cittadina è questo. E intorno ad esso è cresciuto a Roma un ceto più o meno vasto di professionisti, di «consulenti», di personaggi introdotti in alcuni punti chiave dello Stato, di veri e propri delinquenti in guanti bianchi, ma anche di uomini-ombra più di mano, tipo Salvatore Buzzi, la cui attività sostanziale è ormai quella di intermediare il malaffare con la decisione politico-amministrativa: che si tratti di un grande appalto o una di una Ong per i migranti. Con un tenore di vita, di abitazioni, di auto, di consumi, la cui origine illegale si respira nell’aria.
Il Pd arriva a questo punto. Il Pd era l’unico partito romano che conservava almeno in parte un rapporto con la base popolare, quella del vecchio Partito comunista: e probabilmente proprio questo è ciò che l’ha perduto. Una base popolare dai tratti spesso plebei — chi ha una certa età se lo ricorda — che per forza era contigua a persone e cose non proprio in regola con la legalità (ladruncoli, piccoli spacciatori, topi d’auto): ma finché a sovrintendere ci sono stati il controllo etico-politico del partito e la decisione inappellabile dei vertici in materia di cariche e di mandati elettorali, nessun problema. Come si sa, però, a un certo punto tutto questo è svanito. È accaduto allora come se quella base popolare fosse rimasta affidata a se stessa e alle regole spesso demenziali (vedi primarie «aperte») ed estranee della nuova democrazia interna. È allora che si è aperto il varco: non avendo più un vero corpo, il partito non ha avuto più anticorpi.
Mentre il Pd si confermava nella città come il partito di fatto stabilmente dominante, con tutte le possibilità di affari connesse a un tale ruolo, una parte dei suoi uomini ha capito che esso poteva essere assai utile per riempirsi le tasche. Lo ha capito anche la delinquenza più sveglia e più attrezzata, che è stata pronta a stabilire rapporti con la sua nuova classe, a mettere a libro paga persone, a costruire filiere, a organizzare complicità e ricatti. Così, servendosi dei mezzi del clientelismo politico più ovvi, è cominciata la scalata al Pd da parte del malaffare. Lo ha detto bene in un rapporto Fabrizio Barca, dopo aver indagato quanto accaduto nei circoli dem della Capitale: il Pd è diventato «un partito cattivo, ma anche pericoloso e dannoso», i suoi iscritti sono troppo spesso «carne da cannone da tesseramento» .
Matteo Renzi è avvertito: questa è Roma, la capitale dell’Italia del cui governo egli è a capo. Questo è — qui ma non solo — il partito di cui egli è segretario. Ma a questo punto, sia chiaro, non servono le parole e neppure l’accetta. Serve il lanciafiamme .