di Tommaso Ciriaco
ROMA — Un patto a due. Siglato nelle ultime ore da Giuseppe Conte e Nicola Zingaretti, dopo giorni di tentazioni, mediazioni, tentennamenti. E di tormenti, soprattutto del leader del Pd. Un accordo che si può sintetizzare così: dopo le Regionali il governo non cambia, non si tocca nulla, meglio evitare il rimpasto. Somma di debolezze, si dirà. Presa d’atto di un quadro in bilico. Ma soprattutto, concordano il premier e il segretario dem dopo sofferto confronto, consapevolezza di un dato di realtà: il fallimento dell’uno corrisponde al rischio di fallimento dell’altro. Perché farsi del male – sconvolgendo assetti assai precari – quando nel borsello di Palazzo Chigi già risuonano 209 miliardi di euro da spendere per rilanciare il Paese, oltre a un’allettante tornata di nomine nelle partecipate da varare in primavera?
Non è stata comunque una decisione facile, come dimostra la cronaca del dietro le quinte degli ultimi giorni. Zingaretti, sul tema rimpasto, ha dato segnali diversi, a qualche interlocutore ha consegnato un secco «neanche per idea», ad altri un più tormentato «ci sto pensando». Nel Pd le opinioni divergono, come dimostra la dichiarazione di ieri al Tg4 del vicesegretario Andrea Orlando: «Al governo serve un tagliando, nuove competenze nei ministeri per il Recovery Fund». Conte, invece, sembra convinto fin dall’inizio della necessità di evitare i danni di un rimpasto. A un certo punto, però, accetta di ragionare di una soluzione intermedia, quasi d’emergenza. È pronto a concedere un singolo cambio di casella al Pd e un altro al Movimento. Un intervento chirurgico, magari per sostituire la 5S Nunzia Catalfo e uno dei ministri dem, possibilmente un uomo. Ma lo schema invecchia prima di diventare operativo.
Non toccare nulla è esattamente il consiglio che per giorni Dario Franceschini regala al presidente del Consiglio e al leader del Pd, assumendo quasi fisicamente la forma di un cuscinetto. Il capodelegazione dem ammortizza, smorza. Suggerisce ad esempio a Zingaretti di non dare ascolto alle sirene di una fetta del partito, capitanata da Goffredo Bettini, che gli consiglia di entrare nel governo, «è la tua unica via d’uscita politica ». Congelare l’attuale esecutivo significa anche deludere le attese di Base riformista, la corrente dem che vorrebbe vedere al governo Graziano Delrio, traghettando Paola De Micheli alla vicesegreteria del Pd e Andrea Orlando alla guida del gruppo di Montecitorio. Non muovere nulla, ribadisce Franceschini al segretario, verrebbero stravolti i delicati equilibri dell’esecutivo. Mettendo a rischio anche il Lazio, ormai una delle pochissime Regioni in mano al Pd.
L’accordo tra Conte e Zingaretti si nutre dell’estrema debolezza del quadro, come detto. E della consapevolezza che il Movimento è ormai terra di nessuno. Ogni corrente reclama la testa di un ministro di un’altra corrente, dando l’impressione di un castello di carte esposto anche al più leggero degli aggiustamenti. Ma ciò che più conta, forse, sono le risorse del Recovery Fund. Attorno a questo denaro ruoterà lo slogan del 22 settembre, a urne appena chiuse. Lo ha lasciato intendere ieri il presidente del Consiglio: «Se perderemo la sfida del Recovery – ha detto – avrete il diritto di mandarci a casa». Come a dire: prima di un anno questo esecutivo non ha alcuna intenzione di mollare, neanche di fronte a una catastrofe elettorale.
Non è esattamente così, ovviamente. E non decide tutto Conte. Il patto con Zingaretti, questo è vero, varrebbe sia in caso di sconfitta nelle Marche, sia in caso di débâcle in Puglia. Più difficile reggere alla vittoria della leghista Susanna Ceccardi in Toscana. È il finale distopico di questa storia, che si alimenta nelle ultime ore di previsioni che raccontano di una Regione rossa contendibile a pochi giorni dal voto. Ecco, l’1 a 5 alle Regionali aprirebbe uno scenario forse incontrollabile, nel quale non si potrebbero escludere neanche le dimissioni di Zingaretti. Gli effetti sul governo, però, potrebbero essere “posticipati”: resterebbe Conte fino alla manovra economica e al nuovo congresso del Pd, nella primavera del 2021. Certo, rimane l’incognita di Matteo Renzi, che considera il Conte bis già finito ed è pronto a ripartire alla carica dal 22 settembre.
C’è un solo caso in cui l’accordo potrebbe essere rivisto: quello di una sonora vittoria del Pd alle Regionali. A quel punto Zingaretti entrerebbe nell’esecutivo, ma spostando gli equilibri della maggioranza. Ecco perché a Porta a Porta lascia aperto uno spiraglio, «Io al Viminale? Non è il tema, in questo momento…».