La reazione a catena è in atto e nessuno può dire cosa accadrà in Medio Oriente. L’unica cosa certa è che sarà guerra tra Iran e Usa perché entrambi i leader, Khamenei e Trump, hanno un fortissimo interesse a farla. Sul fronte americano la cosa è ovvia: un presidente eletto con tre milioni di voti meno del suo avversario, impopolare agli occhi del 60% degli americani e per di più sottoposto a impeachment per grossolane violazioni di legge come può essere rieletto? Solo e soltanto se il paese è in guerra, come accadde anche a George W. Bush nel 2004, anche lui arrivato alla Casa Bianca con la frode nel 2000 (le famose schede elettorali non ricontate in Florida per decisione della Corte suprema). Oggi Trump ha bisogno di una guerra, preferibilmente a bassa intensità ma durevole, che si prolunghi fino al giorno delle elezioni.
Sul fronte iraniano, il «martire» Soleimani rinsalda la legittimità e il potere della Repubblica islamica, zittendo le opposizioni che negli ultimi mesi si erano fatte sentire, al prezzo di una sanguinosa repressione, attuata dai Guardiani della rivoluzione. Khamenei in pratica è obbligato a reagire con forza, se non altro per rispondere al sentimento popolare espresso nella partecipazione di milioni di iraniani alle manifestazioni dopo l’uccisione del popolarissimo generale. Ora ci può essere soltanto un’escalation, forse con attacchi alle navi che transitano nello stretto di Hormuz, forse con attentati contro basi e ambasciate americane nel mondo.
Tutto questo è ulteriormente complicato dal fatto che numerosi altri attori sono in gioco: il governo iracheno (sciita) vuole espellere tutte le truppe americane dal paese, anche se non è chiaro se Trump accetterà, con il rischio di un ritorno del «califfato» Isis nel nord della Siria e dell’Iraq (i curdi non si presteranno certo a fare da carne da cannone una seconda volta, dopo essere stati abbandonati alla mercé della Turchia).
Dal canto loro, Arabia Saudita e Israele non vedono l’ora di regolare i conti con lo storico nemico iraniano, in particolare Netanyahu, che dovrà anche lui affrontare nuove elezioni tra poche settimane, per la terza volta in un anno. Americani e israeliani potrebbero approfittare dell’occasione per bombardare i siti di arricchimento dell’uranio iraniani, con il pretesto della ripresa del programma nucleare di Teheran dopo che gli Usa avevano ripudiato l’accordo sottoscritto dall’amministrazione Obama.
Sul piano politico interno, l’effetto immediato sugli Stati Uniti è di rovesciare il tema di fondo della campagna elettorale, che fino a pochi giorni fa doveva essere centrata sulla politica interna, in particolare sull’idea di un servizio sanitario universale ottenuto estendendo a tutti i cittadini l’assicurazione per gli anziani ora esistente. Un’idea della sinistra del partito democratico che sembra incontrare il consenso dei cittadini e che aveva fin qui spinto i consensi di Bernie Sanders e di Elizabeth Warren.
Se la campagna per la presidenza viene invece dominata dalla politica estera, o addirittura da un conflitto armato in corso, è chiaro che nelle primarie democratiche saranno favoriti candidati come Joe Biden, l’anziano vicepresidente di Obama, oppure il giovane (37 anni) Pete Buttigieg, che ha fatto il suo servizio militare in Afghanistan. È possibile che Trump, nella sua megalomania, non si sia reso conto di aver scatenato una guerra ma potrebbe accorgersene presto: non solo per le inevitabili rappresaglie iraniane ma perché la sua base elettorale nel 2016 aveva creduto alla promessa di metter fine alle guerre senza fine in Afghanistan e in Iraq.
Nonostante il fervore sciovinista che pervade gli Usa ad ogni squillo di tromba e sventolio di bandiere è possibile che i suoi elettori siano meno entusiasti di un nuovo conflitto di quanto non lo sia il presidente. Molto dipende da quando e come arriverà la risposta iraniana: se avrà come bersagli obiettivi civili o militari, se ci saranno perdite, se Trump potrà comodamente usare dei droni per colpire obiettivi strategici o se invece sarà necessario l’invio di truppe in Medio Oriente, cosa che l’opinione pubblica americana potrebbe accettare solo se vedesse un pericolo immediato per la sicurezza degli Stati Uniti: non a caso il pretesto ufficiale per l’assassinio di Soleimani è stata la necessità di prevenire attacchi che avrebbero provocato vittime americane.