Il caso Umbria sul ricovero obbligatorio rilancia le proteste. Ieri manifestazione a Roma
Flavia Amabile
Roma
Tante donne, con 80mila firme raccolte dalla Rete italiana contraccezione e aborto Pro-choice, erano ieri mattina davanti al Ministero della Salute a Roma per chiedere la somministrazione della pillola abortiva Ru486 in regime di day hospital, senza ricovero, fino a nove settimane di gestazione, e la contraccezione gratuita. Ancora una volta in piazza, quindi, per difendere il diritto di scegliere l’aborto dopo la decisione della Regione Umbria, guidata dalla Lega, di reintrodurre l’obbligo di tre giorni di degenza per le donne che decidono di abortire con la Ru486. Il presidio al Ministero è stato convocato «per sollecitare le istituzioni competenti a prendere immediati provvedimenti al fine di tutelare e garantire i diritti sessuali e riproduttivi delle donne». Si tratta – spiega la rete Pro-choice – di rispettare l’articolo 15 della Legge 194 e di garantire il diritto di accedere alle tecniche contraccettive e abortive più efficaci e aggiornate. «L’accesso all’aborto farmacologico in Italia è oggi ostacolato da restrizioni e indicazioni previste nelle linee nazionali non giustificabili da un punto di vista medico-scientifico, con la richiesta di ospedalizzazione di tre giorni e il limite per la somministrazione delle compresse fissato a sette settimane di gestazione».
Come risulta anche dall’ultima relazione sulla legge 194, il ricorso all’aborto farmacologico è in media del 20,8% ma in molte regioni non arriva neanche al 10%, con estrema variabilità da regione a regione. «In Francia l’Ivg (interruzione volontaria di gravidanza) farmacologica viene scelta dal 66% delle donne, in Svezia dal 95%», sottolinea la rete Pro-choice. Ma l’Italia non è un Paese per donne, come emerge anche dai dati della commissione d’inchiesta del Senato sul femminicidio e la violenza di genere. A marzo di quest’anno è raddoppiata l’incidenza dei delitti commessi contro le donne, rispetto al totale degli omicidi. La quarantena e il conseguente isolamento, insomma, hanno fermato gran parte dell’Italia ma non gli autori dei femminicidi. Anzi.
A marzo 2019 erano state uccise 38 persone, di cui 12 donne. Un anno dopo, a marzo 2020, degli 11 omicidi compiuti, 7 hanno visto le donne come vittime. Vuol dire che mentre nel marzo 2019 le donne uccise rappresentavano circa il 30% del totale, nel 2020 si è arrivati addirittura al 60%. Il doppio. Aumenta anche la percentuale dei delitti commessi in ambito familiare, che sale dal 45% del 2019 al 58% nel 2020. Ma soprattutto aumentano le donne che hanno perso la vita per crimini compiuti all’interno della famiglia, salite dal 57% al 75%. La presidente della commissione, la senatrice Pd Valeria Valente: «Abbiamo retto grazie ai centri antiviolenza, che sono baluardi indispensabili. Chiederemo di rivedere le procedure con cui arrivano le risorse semplificandole, e i tempi di assegnazione per dare loro maggiori certezze nella programmazione delle attività».